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Zona d’ombra – La recensione dal Bif&st

Il film di apertura del Festival propone un’interessante variante medical del canonico filone sportivo

Will Smith in Zona d'ombra

Will Smith in Zona d'ombra

03.04.2016 - Autore: Alessia Laudati (Nexta) - da Bari
Pensateci e provate a dire che non provoca inquietudine al solo pronunciarsi della premessa inziale. Un campione di football americano tra i più amati, il giocatore realmente esistito Mike Webster, che il pubblico ha imparato a identificare con qualità positive come forza fisica, salute personale integerrima e lunga vita, comincia a soffrire di stati allucinogeni complessi fino a morire in circostanze misteriose e terribili.

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Il coroner che effettua l’autopsia sul suo corpo – un dottore nato in Nigeria e senza green card, diligente, idealista e ovviamente preda del sogno americano – capisce che qualcosa non va e prova a indagare la correlazione tra i problemi neurologici sofferti dal campione e i traumi durissimi subiti in campo contro il lassismo criminale della temibile National Football League (NFL).

Vista così la trama di Zona d’ombra, film diretto dal regista Peter Landesman, prodotto da Ridley Scott, e opera tratta dalla vera storia del dottor Bennet Omalu, neuropatologo nigeriano che scoprì la CTE (encefalopatia cronica traumatica), sarebbe stata perfetta per costruire un thriller appassionante che lanciasse profondi richiami al genere medical.

E in effetti si tratta di un film riuscito che segue la geniale intuizione di indagare al cinema quel temperamento nei confronti della morte e dei misteri del corpo che ha ispirato il genere medical – di diffusione prettamente televisiva - e dedicato ampio spazio all’analisi profonda dell’etica personale e professionale dei medici.

Ma parliamo anche di una pellicola piuttosto tradizionale – per lo stile asciutto, per la ridondanza con la quale viene esplicitata l’importanza e la foga della rincorsa al sogno americano – e per la scelta di fare di Will Smith l’incarnazione dell’uomo venuto dal niente che rincorre con idealismo i valori do-it-yourself come stile di vita e di successo assicurato. Eppure è uno di quei casi dove il cinema riesce a fare bene – a convincere senza eccellere - declinando lo stesso tema di sempre in un’operazione tuttavia interessante.

Specialmente quando Zona d’ombra si scorda dei toni puramente drammatici – l’indebolimento del sogno americano, la lotta dell’uomo venuto dal nulla, la rettitudine di un medico – per sporcarsi un po’ con le atmosfere fredde del thriller e dimenticandosi di celebrare la grande lezione di eroismo a ogni costo. Certo, non è un’operazione che riesce per tutta la durata del film; specialmente nelle ultime parti dove perde ritmo e si abbandona alla retorica. Però il fatto che esso riesca a toccare – almeno a livello di immaginario – il divario che intercorre tra la percezione che la società ha degli sportivi, dello sport e del mondo sportivo in generale – considerati dei in terra i primi, esercizio di stile di vita assolutamente positivo il secondo e simbolo di corretta e trasparenza il terzo –  e la realtà, è sintomo di un film che ha qualcosa di diverso da dire.

E che nella lotta conclamata tra la ricerca della verità, sia essa scientifica o umana e l’ostracismo esercitato invece dalla lobby NFL, si inventa una nuova sfumatura per raccontare il filone del cinema sportivo e celebrarne insieme l’eroismo assoluto dei suoi protagonisti colorandolo di salsa medical. Non è poco davvero.

Zona d'ombra, distribuito da Warner Bros. Pictures, uscirà nelle sale italiane il 21 aprile.
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