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Waiting for the Barbarians, Mark Rylance e Johnny Depp si sfidano ai confini del mondo (recensione)

Ciro Guerra abbandona la Colombia per il suo primo film in lingua inglese. Dal romanzo di J. M. Coetzee

Johnny Depp

08.09.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
Un uomo all’ultima frontiera del mondo. Dopo il nulla: il deserto, i nomadi, i “barbari”. Il romanzo di J.M. Coetzee è alla base: Waiting for the Barbarians (ma il finale del film è diverso, forse più moderno). L’impostazione è quella de Il deserto dei tartari, con qualche richiamo a Lawrence d’Arabia (le carovane che si spostano sotto il sole cocente). Un Aspettando Godot in mezzo alla sabbia, dove Godot è ciò che non si conosce, e su cui si vuole esercitare il controllo.

Ciò che spesso caratterizza il cinema di Ciro Guerra è la solitudine dei suoi protagonisti. Lo sciamano Karamakate viveva ai margini, portava dentro di sé lo sterminio del suo popolo in El abrazo de la serpiente. In Oro Verde – C’era una volta in Colombia assistevamo alla nascita del narcotraffico come lo conosciamo, e il crimine aveva origine da un piccolo villaggio immerso nella natura. Allo stesso modo Waiting for the Barbarians è ambientato in una fortezza, un microcosmo dimenticato.

È un luogo di passaggio, di quiete apparente. È come se anche lì regnassero delle tradizioni ancestrali, in armonia con i nativi e lo spirito della Terra. Lo scossone è frutto dell’arrivo dello straniero. La brutalità dilaga, l’invasore cerca il conflitto, quasi lo pretende con la sua arroganza colonialista, in un mondo dove l’unica vera padrona è l’attesa.

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Guerra realizza un racconto dove il tempo si cristallizza, non passa mai. Solo i diversi capitoli segnano l’andare delle stagioni. Il movimento è nei piccoli gesti, negli sguardi, nelle espressioni di un Mark Rylance che si confronta con i suoi incubi. Sembra essere l’ultimo baluardo di umanità rimasto. E la sua forza è la pazienza, la capacità di restare saldo nonostante il male che lo circonda. In quella roccaforte la civiltà si trasforma in ferocia. Il vero nemico forse non si nasconde in territori inesplorati.

“Il dolore è verità, tutto il resto è in dubbio”, si legge tra le pagine di Coetzee. E Guerra lo segue alla lettera. Descrive le menzogne dei potenti con lucidità, si interroga anche sull’impossibilità di amare, di incontrarsi. Gli affetti non sono corrisposti, la comunicazione è impossibile. Waiting for the Barbarians è un film fatto di muri, di divisioni. L’Impero contro la provincia, la giustizia contro la bestialità, il potere contro l’essere umano. L’azione viene costantemente ritardata, fino all’inevitabile.

Ma forse l’essenza di Waiting for the Barbarians passa attraverso gli occhi di Rylance, gli stessi che avevano stregato ne Il ponte delle spie di Spielberg. È l’unico “luogo” in cui si scorge ancora l’innocenza, la sorpresa, il terrore. Sono la chiave di lettura del contemporaneo, il filtro con cui si dovrebbe vedere il presente. Tutto il resto è oscurità. Ciro Guerra gira per la prima volta in lingua inglese e senza Cristina Gallego, che compare comunque tra i produttori.