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Un uomo da marciapiede, i 50 anni del grande film con Jon Voight e Dustin Hoffman

Il trionfo di John Schlesinger. Il cowboy e lo storpio che hanno conquistato Hollywood. Dal 1969 a oggi

Dustin Hoffman

07.05.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
Spalle larghe, cappello sempre in testa, biondo, occhi scuri. Jon Voight è un cowboy che, in Un uomo da marciapiede, assiste alla morte del western. Non cavalca più, prende la corriera. Gli speroni gli servono per alimentare la sua eccentricità, mentre prova a fare lo “stallone” a New York. Il modello per le donne è Gary Cooper, mentre John Wayne ormai sembra appartenere al passato. La violenza del West la vediamo nei ricordi del protagonista, nella sequenza dello stupro, della follia che poi si è impossessata della sua ragazza. È tempo di abbandonare l’America profonda, il mito della frontiera.

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Due anni dopo Bogdanovich avrebbe ritratto la fine di un’epoca ne L’ultimo spettacolo. Ma qui siamo nel 1969, con la ribellione dei costumi, la ricerca della libertà. Non è un caso che nel ‘69 uscirono nelle sale anche Il mucchio selvaggio e Easy Rider, il tramonto di un genere e il manifesto di un movimento. Qui Voight interpreta un bel giovane disinibito, che si fa usare a pagamento (la sequenza nel cinema avrebbe fatto scandalo). Il sogno americano che svanisce, il denaro che distrugge l’animo. Ci sarebbe tornato nel 1980 Paul Schrader, fondendo Bresson, la New Hollywood e l’iconico Richard Gere in American Gigolò. Ma questa è un’altra storia.



Uscito negli USA il 25 maggio 1969, Un uomo da marciapiede festeggia mezzo secolo, si scopre maturo anche all’anagrafe. Fece scalpore per la disinvoltura nel mostrare la sessualità (anche se non ci sono nudi integrali), e fu il primo film con un X-Rating (visto censura normalmente destinata alla pornografia) a vincere le statuette più ambite: miglior film, regista e sceneggiatura non originale. Fu il trionfo di John Schlesinger, regista inglese alla conquista di Hollywood. La canzone Everybody’s Talkin cantata da Harry Nilsson resta un sempreverde per descrivere il “grigiore” delle metropoli. La Grande Mela è un luogo freddo, scuro, dove si è persa ogni umanità. Il corpo è merce di scambio, ognuno vive come un’isola.

Voight incontra Dustin Hoffman, zoppo e malato di tisi. L’uno è bello e slanciato, l’altro è piccolo e storpio. Rappresentano le due facce degli Stati Uniti, il vincente e lo sconfitto, l’uomo da cartolina e il reietto. In apparenza sono uno l’opposto dell’altro, ma alla fine si scoprono uguali nella miseria, mentre cercano di sopravvivere aiutandosi. Hotel di lusso, feste alla Warhol, ricche signore che sfogano le loro voglie con qualche rozzo montanaro. È la fiera dell’eccesso, che cerca di far dimenticare la difficoltà di vivere.

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Schlesinger lavora con Hoffman anche nel fortunato Il maratoneta. Una costante del suo cinema è l’utilizzo dei flashback: scene oniriche, quasi da videoclip, con un montaggio veloce e un rapido cambio di cromature. In Un uomo da marciapiede, il cowboy ha gli incubi, cerca di fuggire dai suoi traumi, prova a ricominciare. Come un Paese che non sa più in che cosa credere, sospeso tra l’omicidio di Kennedy, la guerra in Vietnam e il non troppo lontano scandalo Watergate. Schlesinger ripone le speranze di un popolo nel viaggio, quello che fa riscoprire a Voight l’importanza dei sentimenti, quello che qualche decennio prima aveva segnato una generazione con Sulla strada di Jack Kerouac.