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Tre volti, la recensione dell'ultimo film di Jafar Panahi

Premiato per la miglior sceneggiatura all'ultimo Festival di Cannes, è il ritratto di un Paese che non guarda al futuro

Panahi

29.11.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
Il cinema di Abbas Kiarostami, quello di Jafar Panahi. Tre volti parte dalla stessa premessa de Il sapore della ciliegia: un suicidio. Reale o immaginario non è importante. Per Kiarostami era la storia di un soldato alla ricerca di un aiuto per togliersi la vita, per Panahi (suo assistente alla regia per Sotto gli ulivi) è il video di una ragazza disperata, che si impicca in una caverna. Il regista indaga le nostre reazioni davanti alla morte, invita a farsi forza, a non cadere nella disperazione.

La settima arte diventa un modo per analizzare la realtà, scomporla, e ricostruirla sullo schermo. La macchina da presa è un tramite, un testimone, che trasforma la finzione in qualcosa di vero. E non il contrario, come poteva essere ne Il sapore della ciliegia, quando veniva inquadrata la troupe al lavoro. Così i protagonisti non si celano dietro a pseudonimi: sono Jafar Panahi stesso e la star Behnaz Jafari. Viaggiano attraverso il Paese con lo spirito de Il vento ci porterà via (altro capolavoro di Kiarostami), si immergono in un Iran rurale. Luoghi dove le regole sono un retaggio inamovibile, dove la tradizione è più forte dell’umanità.



Gli attori vengono chiamati “intrattenitori”. Sono disprezzati perché hanno provato a emanciparsi, a vivere secondo i sogni. L’avanzare della modernità è vista come una minaccia. “Ci sono più le antenne paraboliche che medici”, si lamenta un anziano al bar. Contano più gli animali degli uomini: “Questo è un toro da monta, bisogna trattarlo con cura”, spiega un allevatore di fronte alla sua bestia azzoppata. A spegnersi sono le speranze dei giovani, costretti ad abbracciare il passato anche se vorrebbero guardare al futuro.

Così si arriva ai Tre volti, tre figure femminili, tre fotografie di un Iran distrutto, dove l’arte non è riconosciuta. La prima: una signora in età, che un tempo ballava nei film, prima della rivoluzione e delle imposizioni del regime. Ora tutti la evitano, dicono che ha avuto quello che si merita. La seconda: Benhaz Jafari, che rappresenta il contemporaneo, con tutte le difficoltà dell’essere un’attrice. La terza: una giovane che minaccia un gesto estremo pur di seguire la sua passione.

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Il ritratto di un Iran disperato, dove tutto sembra immobile. Panahi (accusato di cattiva propaganda e condannato a non lasciare lo Stato e a non girare più film) ci guida nel suo mondo, sempre a bordo di un’auto. In Taxi Teheran si improvvisava tassista per raccontarci la capitale. Qui, sul suo fuoristrada, ci porta sulle montagne, per mettere in scena (o forse solo catturare, come in un documentario) tanti frammenti, tante piccole esistenze che dipingono un affresco dai colori spenti.

This Is Not a Film. Era il titolo del diario della sua attesa, un home movie in cui Panahi aspettava il risultato dell’appello alla sua sentenza. This Is Not a Film ripete oggi, per risvegliare le coscienze, scuotere gli animi con il suo stile sobrio, e proiettarci nell’universo che nessuno vorrebbe vedere.

Il film uscirà nelle sale italiane giovedì 29 novembre distribuito da Cinema