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Tra dramma e thriller bucolico, la recensione di Petit Paysan

Una febbre emorragica colpisce le mucche di un protagonista sull'orlo della crisi nell'interessante film attualmente al cinema

27.03.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane (Nexta)
La campagna sembra un mondo lontano, quasi sconosciuto, per chi abita in città. La sveglia suona presto: bisogna badare agli animali, e i campi, nonostante le nuove tecnologie, hanno bisogno di mani sapienti in grado di curarli. È questa l’ambientazione di Petit Paysan, un thriller bucolico, un dramma, ma anche una riflessione sulla vita, sui suoi ritmi e la costante sensazione di solitudine. 

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Il giovane allevatore Pierre, interpretato da un ottimo Swann Arlaud, ha riversato tutto il suo amore sul lavoro, sulle mucche che ogni giorno hanno bisogno di lui. Nei suoi occhi si può leggere una voglia di esplodere trattenuta, una giovinezza che si è infranta sui doveri e su una madre troppo oppressiva. La sua è un’ossessione, che si materializza nella prima sequenza del film, con trenta mucche che si aggirano per la cucina senza neanche lasciarlo muovere. Si tratta solo di un sogno, ma la realtà non è molto diversa. Swann è oppresso, imprigionato, nonostante gli ampi spazi e la natura che si fonde con l’uomo. In quest’atmosfera agreste sembra che ci possa essere un equilibrio, un punto d’incontro tra furia distruttrice dell’umanità e il pianeta che ci ospita. Torna alla mente L’apprendista di Samuel Collardey, il racconto di formazione di un ragazzo che si avvicina all’età adulta facendo il contadino. Petit Paysan lo richiama, lo supera, mettendo in scena il travaglio di “un piccolo uomo di campagna” che non può ribellarsi al destino. 

La febbre emorragica che colpisce i suoi animali è la nuova Mucca Pazza, un veleno che non ha ancora un antidoto. Le mandrie vengono abbattute per evitare il contagio, le fattorie smettono di esistere. L’Unione Europea, con le sue politiche agricole, non riesce ad aiutare chi perde tutto. I “risarcimenti” tardano ad arrivare, e intanto le aziende falliscono, schiacciate dai debiti e dai costi per mantenere una struttura che non funziona. Abbandono, emarginazione, in una Francia con una cultura ancora molto rurale, appena si esce dalle mura di Parigi


L’esordiente Hubert Charuel conosce bene questa realtà. I suoi genitori erano paysans e la fattoria in cui è girato il film era la loro. Ormai sono andati in pensione, ed entrambi compaiono davanti alla macchina da presa nei panni del padre e della madre. L’anziano signore che spesso viene a trovare Pierre è il nonno del regista. Si sente una forte anima famigliare in Petit Paysan, che alterna il realismo alla tensione, al disperato tentativo del protagonista di salvare quello che si è guadagnato col sudore. In alcuni passaggi si potrebbe addirittura parlare di documentario, quando vengono descritte la mungitura delle vacche e la nascita di un vitellino. Non siamo dalle parti di Abdellatif Kechiche e del suo bellissimo Mektoub, My Love: Canto Uno, non c’è la stessa tensione per il corpo, il desiderio.

La cinepresa non cannibalizza ogni evento, ma accetta anche di distogliere lo sguardo, per lasciar intendere senza mostrare. La sofferenza di un ragazzo forse senza futuro appartiene a tutti noi.

Petit Paysan è attualmente nei cinema distribuito da Nomad Film