É un gioco di specchi riuscito questo The Confessions of Thomas Quick, che nella sua struttura priva di coerenza cronologica, sulla falsariga dell'inchiesta giornalistica, racconta uno dei casi più controversi della storia svedese. La storia di Thomas Quick, al secolo Sture Bergwall, che nel 1993, dall’ospedale psichiatrico dove era rinchiuso, cominciò a confessare di essere il terribile autore di circa 39 delitti avvenuti in Svezia tra il 1980 e il 1990 e rimasti al tempo ancora irrisolti. Salvo poi dichiararsi innocente dopo dieci anni, ed essere assolto da tutte le precedenti condanne in via assolutamente definitiva.
Un argomento perfetto, quello che tra esempi di mala sanità, mala giustizia e mala opinione pubblica, ci mostra un vero noir in salsa nordica che non ha bisogno di inventare il proprio oggetto del racconto, trovando nella realtà recente numerosi spunti realistici per dare vita ad una storia classica del genere. E davvero lo spettatore segue il regista Brian Hill in questo viaggio molto insolito.
E lo fa convincendosi prima della verità dell’orrore commesso da Bergwall. Fino a quasi provare disgusto per l’impudenza con la quale esso ci viene in un primo momento mostrato – chi scrive è stato quasi sul punto di alzarsi di fronte a questa esclusiva cavalcata nera ed emotiva dell’orrore più cupo – salvo poi capire il trucco e, come in una puntata appassionante delle migliori serie poliziesche, osservare il cambio di registro e la ricerca, non di certo priva di toni paradossali, della verità dentro la presunta verità. Il docu-film passa quindi con estrema lucidità dai toni cupi del noir a quelli più ironicamente paradossali, con estrema efficacia.
E infine quindi, è necessario applaudire a un lavoro difficilissimo e privo di ogni giudizio morale, che guarda alla parabola discendente di Bergwall come ogni regista dovrebbe guardare al proprio oggetto filmico. Senza perbenismi, ma spogliandolo di ogni condizionamento personale fino a farne un racconto lucidissimo, che con l’aiuto di footage e ricostruzioni reali, ci porta dentro l’inganno della percezione e della manipolazione su larga scala, mostrandoci poi l'ennesima trappola nella quale, come spettatori, siamo propriamente finiti.
Per saperne di più sulla Festa del Cinema, seguite il nostro speciale.
Un argomento perfetto, quello che tra esempi di mala sanità, mala giustizia e mala opinione pubblica, ci mostra un vero noir in salsa nordica che non ha bisogno di inventare il proprio oggetto del racconto, trovando nella realtà recente numerosi spunti realistici per dare vita ad una storia classica del genere. E davvero lo spettatore segue il regista Brian Hill in questo viaggio molto insolito.
E lo fa convincendosi prima della verità dell’orrore commesso da Bergwall. Fino a quasi provare disgusto per l’impudenza con la quale esso ci viene in un primo momento mostrato – chi scrive è stato quasi sul punto di alzarsi di fronte a questa esclusiva cavalcata nera ed emotiva dell’orrore più cupo – salvo poi capire il trucco e, come in una puntata appassionante delle migliori serie poliziesche, osservare il cambio di registro e la ricerca, non di certo priva di toni paradossali, della verità dentro la presunta verità. Il docu-film passa quindi con estrema lucidità dai toni cupi del noir a quelli più ironicamente paradossali, con estrema efficacia.
E infine quindi, è necessario applaudire a un lavoro difficilissimo e privo di ogni giudizio morale, che guarda alla parabola discendente di Bergwall come ogni regista dovrebbe guardare al proprio oggetto filmico. Senza perbenismi, ma spogliandolo di ogni condizionamento personale fino a farne un racconto lucidissimo, che con l’aiuto di footage e ricostruzioni reali, ci porta dentro l’inganno della percezione e della manipolazione su larga scala, mostrandoci poi l'ennesima trappola nella quale, come spettatori, siamo propriamente finiti.
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