Un western atipico che mescola alla crudezza pulp, venti di surrealtà, romanticismo, nonsense e poesia.
Questo è in sintesi Slow West, opera presentata in anteprima europea al Bif&st 2015, che vede un granitico e imperscrutabile Michael Fassbender nelle vesti di un cowboy cinico che affianca il giovane e inesperto sedicenne Jay Cavendish (Kodi Smit-McPhee) nella ricerca di un amore perduto, o forse no, nel selvaggio West americano.
C’è da dire che il primo lungometraggio dello scozzese John MacLean, è un piccolo grande lavoro che colpisce per la capacità di equilibrare l’epica e la crudezza, con la semplicità di un sentimentalismo sempre surreale e mai eccessivamente sdolcinato.
É un punto di stabilità nuovo, che ricorda, specialmente nel candore e nello sguardo infantile di fondo, i toni di un certo cinema di Wes Anderson, e la volontà di trovare nuove formule di innovazione del genere, già sperimentata dagli inarrivabili fratelli Cohen. Anche qui il tentativo è riuscito e oltre all’azione, spari, sangue, gringos collaterali molto ben caratterizzati, l’intera pellicola è pervasa da un costante tentativo di percorrere anche i sentieri emotivi dello spettatore.
Nella metafora del viaggio verso West dei due cowboys, c’è sia un percorso di formazione ed evoluzione personale per entrambi i protagonisti, sia la metafora storica di un incontro culturale tra la durezza del continente americano e i sogni di speranza che molti europei procacciarano sul finire del diciannovesimo secolo. Questo è il ritratto drammatico e filosofico creato dal regista attraverso uno stile visivo iperreale, che non si esaurisce in un presente d’azione costellato da personaggi senza volto e senza storia, ma che piuttosto cerca di parlare alla pancia dello spettatore, anzi al suo sottobosco più viscerale, per dare nuovo respiro a una storia solo apparentemente già vista.
É un punto di stabilità nuovo, che ricorda, specialmente nel candore e nello sguardo infantile di fondo, i toni di un certo cinema di Wes Anderson, e la volontà di trovare nuove formule di innovazione del genere, già sperimentata dagli inarrivabili fratelli Cohen. Anche qui il tentativo è riuscito e oltre all’azione, spari, sangue, gringos collaterali molto ben caratterizzati, l’intera pellicola è pervasa da un costante tentativo di percorrere anche i sentieri emotivi dello spettatore.
Nella metafora del viaggio verso West dei due cowboys, c’è sia un percorso di formazione ed evoluzione personale per entrambi i protagonisti, sia la metafora storica di un incontro culturale tra la durezza del continente americano e i sogni di speranza che molti europei procacciarano sul finire del diciannovesimo secolo. Questo è il ritratto drammatico e filosofico creato dal regista attraverso uno stile visivo iperreale, che non si esaurisce in un presente d’azione costellato da personaggi senza volto e senza storia, ma che piuttosto cerca di parlare alla pancia dello spettatore, anzi al suo sottobosco più viscerale, per dare nuovo respiro a una storia solo apparentemente già vista.