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Se la strada potesse parlare, la recensione del nuovo film di Barry Jenkins

Dopo Moonlight, il regista si confronta con il pensiero di James Baldwin. E ne esce vincitore

Jenkins

30.10.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
La Black Hollywood continua la sua lotta sul grande schermo. Difende i diritti civili delle persone di colore, condanna l’America razzista di ieri e di oggi, urla a gran voce che i tempi sono cambiati. È una generazione di registi senza paura, che esalta il black power (potere nero) attraverso i generi. Spike Lee è sempre in attività, poi sono arrivati Steve McQueen, Ryan Coogler, Jordan Peele, Ava DuVernay… E naturalmente Barry Jenkins.

Il suo cinema affonda le radici nel dramma sociale, nella discriminazione che è alla base di un Paese come gli Stati Uniti, fin da The Birth of a Nation (quello di Griffith, non la versione del 2016 di Nate Parker). Le vittime sono gli afroamericani, costretti a vivere nelle periferie, continuamente presi di mira dalla rabbia dei bianchi.



Dopo il successo di Moonlight, Jenkins si confronta con un gigante della letteratura come James Baldwin, scrittore fondamentale della seconda metà del Novecento. Un libro su tutti: Remember This House, dove ha raccontato la storia degli assassini di Evers, King e Malcom X. Con la forza della penna si è scagliato contro un immaginario: quello che descrive i neri come criminali, reietti, esseri inferiori. Ed è proprio da qui che Jenkins riparte con Se la strada potesse parlare (tratto appunto dal romanzo If Beale Street Could Talks di Baldwin).

Uno stupro mai commesso, il ragazzo “del ghetto” che non interessa a nessuno. Finisce in prigione da innocente, lasciando la fidanzata incinta. Alcuni bianchi cercano di aiutarlo, ma come si può sconfiggere il sistema? Serve una (ri)nascita della nazione.

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La macchina da presa lascia la violenza in secondo piano, si concentra sul rapporto tra due innamorati. Li segue nelle difficoltà di ogni giorno, nelle liti e nell’intimità. I due protagonisti vivono ad Harlem (negli anni Settanta), ma sono uguali agli abitanti degli altri quartieri, sono esseri umani. Sono giovani, si giurano fedeltà eterna. Tra loro basta uno sguardo, un momento di silenzio. Le passioni si mescolano alla tragedia, come in Moonlight, un trittico dalle molte anime, ermetico per uno spettatore disattento. Qui il racconto è semplice, lineare. Qualche volta un ricordo, magari dolce, poi la cruda realtà. Quella che respinge, condanna senza un giusto processo.

Come gli scrittori contemporanei Ta-Nehisi Coates e Paul Betty, Jenkins porta avanti il pensiero di Baldwin, con la forza delle immagini. Invita a non vergognarsi delle proprie origini, ad andare fieri della propria identità. Non si tratta di propaganda o di politica, ma di una fratellanza che dovrebbe unire. La Beale Street del titolo originale, situata a New Orleans, è dove “sono nati mio padre, Louis Amstrong e il jazz”, scrive Baldwin. Se potesse parlare quella strada direbbe la verità, e Jenkins si rivolge a un pubblico pronto ad ascoltarla.