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Recensione: The Bad Batch, il western apocalittico con Keanu Reeves e Jim Carrey

Dalla regista di A Girl Walks Home Alone at Night, un'avventura a tinte horror che non riesce però mai a decollare

The Bad Batch

06.09.2016 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
Un western apocalittico ambientato in un deserto spietato, all’interno di un immaginario carcere a cielo aperto che ha più di un debito nei confronti di 1997 – Fuga da New York. The Bad Batch, opera seconda della regista iraniano-americana Ana Lily Amirpour (dopo A Girl Walks Home Alone at Night, che l’anno scorso ha fatto incetta di premi), era uno dei film che più attendevamo a Venezia 73, e si è rivelata una delle delusioni più cocenti.

La regista mette in scena la storia di Arlen (Suki Waterhouse), una ragazza che si ritrova, per qualche ragione sconosciuta, incarcerata in una sorta di enorme campo di prigionia nel mezzo di un deserto a sud degli Stati Uniti, in un territorio fuori dalla giurisdizione USA. Lì viene inseguita, catturata e mutilata da un gruppo di cannibali. Ma è solo l’inizio di un’avventura che la porterà a cambiare inaspettatamente schieramento più di una volta in una battaglia tra due comunità rivali.

Sulla carta ci sono tutti gli ingredienti per una storia appassionate tra horror e azione, con tanto di comparsate di lusso di Jim Carrey e Keanu Reeves, visibilmente divertiti. C’è lo scenario cinematografico del deserto, c’è il gore a piccole dosi, ci sono i personaggi sopra le righe e soprattutto c’è la voglia di rompere convenzioni. La Amirpour sa tratteggiare dei protagonisti per nulla scontati: il cannibale all’apparenza senza pietà (Jason Momoa) che in realtà vuole solo proteggere la figlia e sopravvivere. Il leader della comunità “pacifica” (Reeves) che nasconde però un lato oscuro. Niente va come ci si aspetta, e questo è senz’altro un pregio. Ma non basta.



Non basta perché The Bad Batch cade presto nella noia. L’azione è lenta, manca una vera forza motrice degli eventi e la protagonista è ben poco carismatica, nonostante la sua ferrea volontà di vivere contro ogni ostacolo – anche fisico – che le viene posto davanti. Dovremmo parteggiare per questa final girl definitiva, e invece ci ritroviamo ad attendere il ritorno in scena di Momoa che, con poco, ruba parecchie volte la scena. In generale si avverte un senso di confusione e incertezza su dove dovrebbe andare a parare la trama, che parte bene e poi si accartoccia in una lunga sequela di scene tutte simili, con la protagonista che va in un posto, viene interrotta da un antagonista, lo sconfigge, fugge e poi lo vede tornare. Un vero peccato, perché la Amirpour è una regista promettente, ma evidentemente ha ancora bisogno di affinare le sue capacità di sceneggiatrice.

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