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Recensione: Paradise, spie e nazisti nel dramma di Konchalovsky

Il regista russo racconta tre storie che si intrecciano sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale e della Soluzione Finale nazista

Paradise

08.09.2016 - Autore: Marco Triolo (Nexta)
Andrei Konchalovsky sembra voler precludere il suo film a molti spettatori attraverso scelte di stile che farebbero storcere il naso anche ad alcuni cinefili incalliti. Il suo Paradise è girato in bianco e nero e in 4:3, un formato che sta tornando in voga tra una certa cerchia di autori. È una mossa deliberata per rendere il suo film un oggetto distante, freddo, imparziale, anti-patetico. Un messaggio che poi, però, lo stesso autore tradisce nel corso del film.

 
Paradise è la storia di Olga (Yuliya Vysotskaya), un'aristocratica russa membro della resistenza francese, Jules (Philippe Duquesne), un poliziotto francese collaborazionista e Helmut (Christian Clauss), un ufficiale delle SS solo all'apparenza convinto degli ideali del Reich. I tre incrociano il cammino durante la guerra e il loro incontro avrà conseguenze impreviste e nefaste sulle loro vite.
 
Una tragedia che si consuma lenta e inesorabile, fotografata in un bianco e nero che non lascia scampo ai sentimenti che tradizionalmente vengono legati a storie di questo genere, e specialmente al filone sull'Olocausto. Konchalovski intervalla regolarmente la narrazione con scene statiche in cui i protagonisti delle vicende vengono intervistati, o forse interrogati, sulle loro azioni. Tutto diventa chiaro nel finale, anche se la soluzione è piuttosto pacchiana.

 
L'impianto del film si accartoccia dopo un po' quando appare chiaro che il regista sta solamente fingendo di voler confezionare un gelido documento sulla guerra e inizia a far filtrare il melodramma più scontato. Restano interessanti i personaggi: Helmut è un ufficiale nazista raccontato a 360 gradi e senza preconcetti, la sua fedeltà a Hitler è instabile, sembra tutta superficie eppure in un certo senso non lo è. Olga, da parte sua, è una donna complicata, che rifugge il modello della “donna forte” a tutti i costi: sì, è indipendente, ma il suo rapporto con Helmut, di cui diventa la serva, è ambivalente e getta un'ombra su quest'indipendenza.
 
Buoni spunti non bastano, però, per sostenere un film che dura 130 minuti, di cui almeno venti di troppo.
 
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