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Munich

Steven Spielberg confeziona infatti una pellicola di clamorosa lucidità estetica: la regia di questo suo ultimo, contraddittorio lungometraggio è un esempio perfetto di aderenza alla materia trattata, stilizzata e tagliente

Munich

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Id., Usa, 2005.
Regia di Steven Spielberg;
con Eric Bana, Daniel Craig, Mathieu Kassovitz, Geoffrey Rush

Se fosse possibile scindere la forma cinematografica dal contenuto di un film, allora starei senza alcun dubbio parlando di “Munich” come di un capolavoro; Steven Spielberg confeziona infatti una pellicola di clamorosa lucidità estetica: la regia di questo suo ultimo, contraddittorio lungometraggio è un esempio perfetto di aderenza alla materia trattata, stilizzata e tagliente come mai è capitato al regista di “Il colore viola” (The Color Purple, 1985) e “Minority Report” (id., 2002); perfetto in ogni sua componente, dalle scenografie ai costumi, “Munich” ha al suo servizio l’ormai fido Janusz Kaminski, che elabora una fotografia di stupefacente realismo. Come giustamente mi ha fatto notare Giuliano Tomassacci il risultato visivo dell’opera, soprattutto delle scene d’azione, rimanda in qualche modo alle migliori pellicole di quello che è stato un “maestro” indiscusso nel coniugare il realismo della messa in scena alle necessità dell’action, e cioè William Friedkin. 

Perfetto dunque nella sua confezione, il film di Spielberg mi ha lasciato invece molto dubbioso per quanto riguarda i suoi contenuti, e soprattutto la maniera in cui sono stati sviluppati. Partiamo dal principio: tratto dal romanzo di George Jonas intitolato “Vengeance”, dietro tutte le in farciture della sceneggiatura il film vuole a mio avviso parlare proprio di questo: di una vendetta. Per quanto Spielberg sembri sforzarsi di “coprire” l’intento mettendo in scena anche le contraddizioni ed i turbamenti etici che un simile atto comporta, non c’è dubbio che le parti assolutamente migliori della pellicola siano quelle di architettazione e di azione riguardo questa vendetta. Senza voler spingere troppo la mano nel valutare la legittimità di questa scelta – cosa che comunque non va sottovalutata: non è che dopo “Schindler’s List” (id., 1993) le ritrovate radici ebraiche del regista gli abbiano dato un po’ alla testa? – devo comunque constatare che il tentativo di dare al pubblico una visione comunque “conciliatoria” della vicenda a mio avviso naufraga: ed ecco quindi sparsi per tutto il film i semi di un “buonismo spielberghiano” che mai gli permettono di diventare un cineasta veramente lucido, pur rimanendo comunque uno straordinario regista. Nel gruppo di assassini protagonisti del film compaiono perciò le solite figure recalcitranti, che mettono in  discussione i propri atti criminali con una morale che risulta davvero troppo semplicistica e “telefonata”. Anche la crisi interiore di Avren/Eric Bana sembra davvero costruita per empatizzare col personaggio invece che evidenziarne l’ambiguità. La sceneggiatura di Kushner e Roth molto somiglia a quella di “Salvate il soldato Ryan” (Saving Private Ryan, 1998); l’idea di base è infatti la stessa: un gruppo di uomini si unisce perché deve – e vuole – compiere la missione assegnata, anche quando questa può sembrare irrazionale o immorale; se Spielberg vuole davvero indagare questo concetto perché non inizia a considerare che dietro ad esso, invece del solo senso del dovere, potrebbe celarsi l’ottusità che porta al fanatismo? E quindi, di conseguenza, perché se in “Munich” la strage delle olimpiadi viene messa in scena come un simile atto, la risposta del Mossad dovrebbe essere invece qualcos’altro? 
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