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Lucky, la recensione dell'ultimo film con Harry Dean Stanton

La provincia americana, il deserto, il cappello da cowboy e il ritratto nostalgico di una gioventù perduta, di una grande carriera giunta al termine

Stanton

17.07.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
Paris, Texas, trentaquattro anni dopo. Lucky potrebbe essere il sequel di una delle storie più amate di Wim Wenders, un Alice nelle città non più in bianco e nero, nella provincia americana dove nulla si muove tranne il tempo. Al centro di tutto sempre lui: Harry Dean Stanton, alla sua ultima prova d’attore, in un testamento cinematografico che ripercorre un’intera carriera.
 
Il grande caratterista è morto dopo aver passato i novanta, e qui ci consegna un’immagine indelebile del suo talento, con gli occhi incavati e il sorriso nostalgico per una gioventù perduta. Eterno spirito libero, incarnazione di un mondo fatto di sabbia e deserto, lontano dal caos delle megalopoli, in Lucky si presenta con l’immancabile cappello da cowboy, come se fosse ancora in Pat Garrett e Billy the Kid di Sam Peckinpah, ancorato a un universo virile fatto di eroi e leggende.



Ma qui il mito si è spento, resta la dura realtà, i decenni che scorrono inesorabili con il loro carico di solitudine. “Sono stato innamorato una volta”, spiega seduto al tavolo del bar, un’evoluzione del saloon dei tempi d’oro. Ma adesso non c’è nessuno al suo fianco, solo una senilità da cui non può fuggire. È bloccato in un momento della vita da cui vorrebbe liberarsi, e tutto sembra fermo attorno a lui, solo il sole sorge e tramonta.

La macchina da presa si muove pochissimo, per ricreare un’atmosfera d’immobilità, per catturare ogni singola espressione del protagonista, intenso e malinconico come poche volte l’abbiamo visto. Segue la sua routine quasi in silenzio, affronta con coraggio il quotidiano senza chiedere aiuto a nessuno, e non si scompone davanti alle disgrazie che lo circondano. Porta i suoi pesi sulla schiena, come la tartaruga che il signor Howard (amico di Lucky) cerca per tutta la vicenda. Quella piccola testuggine è il simbolo di un’amicizia fugace, di un fratello che da un giorno all’altro ti abbandona.



Lucky è un tributo, un saluto affettuoso, a cui partecipano i compagni di sempre, da David Lynch a Tom Skerrit. Fuoco cammina con me, I segreti di Twin Peaks, Una storia vera, Inland Empire, senza dimenticare l’incubo nello spazio di Alien targato Ridley Scott e la politica distopica di John Carpenter in 1997: Fuga da New York. È come se tutti i ruoli di Harry Dean Stanton si completassero con Lucky. Questo è il suo “posto delle fragole”, il film in cui il cerchio si chiude, un pellegrinaggio nei luoghi più felici dell’esistenza mentre tutto si prepara a svanire. Ma anche prima di salutare il suo pubblico per sempre, Stanton invita a sorridere al destino, a non perdere l’ottimismo, specialmente quando si arriva al capolinea.

Lui lo fa affogando i rimpianti in un bicchiere, con quello sguardo trasognato che ha catturato anche Francis Ford Coppola (ne Il padrino – Parte 2) e Arthur Penn, affiancando Marlon Brando e Jack Nicholson in Missouri. Stanton è lucky (fortunato) come l’anziano a cui presta il volto: il cinema lo ha plasmato, gli è entrato nel sangue, e lo ha reso immortale.