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Locarno: Dancing Arabs e la verità su Israele

Il regista de Il giardino di limoni per una storia di crescita al confine tra due popoli

Dancing Arabs

08.08.2014 - Autore: Marco Triolo
Non sembra esserci momento più azzeccato di questo per portare a un festival un film come Dancing Arabs di Eran Riklis. Il regista de Il giardino di limoni, da sempre attento alle storie “di confine” (non solo geografico ma soprattutto culturale) tra Israele e Palestina, torna a Locarno dopo aver vinto due volte il premio del pubblico (nel 2004 con La sposa siriana e nel 2010 con Il responsabile delle risorse umane, e lo fa con un film basato sull'omonimo romanzo di Sayed Kashua, semi-autobiografico.



Dancing Arabs racconta la storia di Eyad (Tawfeek Barhom, scoperto per caso da Riklis in un villaggio), ragazzo arabo che viene ammesso in una prestigiosa scuola israeliana nei primi anni '90 e si innamora, ricambiato, di una ragazza ebrea, facendo contemporaneamente amicizia con un coetaneo ebreo affetto da sclerosi multipla. Sullo sfondo i grossi sconvolgimenti della storia: dal conflitto in Libano, all'Intifada, alla prima guerra in Iraq. Naturalmente questo genere di film tende a raccontare una storia per raccontare la Storia, in questo caso il conflitto culturale tra due popoli che in realtà sono più vicini di quello che sembra, e lo scarto tra la massa e l'individuo. La prima mossa da ideali e propaganda, il secondo più a contatto con la realtà della strada e quindi unica speranza per cogliere l'uguaglianza nella diversità e arrivare alla pace.

Ma Dancing Arabs è soprattutto una storia coming of age, quelle in cui si racconta la crescita di un ragazzo attraverso i suoi occhi. Davanti al protagonista si apre un mondo ben più complesso e sfaccettato di quello che suo padre o la propaganda vorrebbero fargli credere. Un mondo in cui arabi ed ebrei possono convivere, anzi addirittura amarsi e legarsi in amicizie più forti della malattia e della morte. Senza mai manipolare troppo lo spettatore – nei limiti di una storia di questo tipo dove un filo di melodramma è immancabile – Riklis racconta con asciuttezza e infonde al suo film una tensione palpabile: siamo sempre sul chi vive, pronti a giurare che ad ogni svolta di trama le cose andranno a finire male per tutti.



Riklis si astrae sempre più dalla realtà per cercare le metafore. Così una carta d'identità condivisa tra Eyad e l'amico malato Jonathan (che in foto “si somigliano molto”) ci conduce a un finale forse un po' troppo scollato dal resto del film, che inizialmente lascia perplessi. Ma poi, riflettendoci, il messaggio travolge in tutta la sua brutale verità: in Israele, se si vuole avere qualche speranza di farcela, bisogna essere per forza ebrei.

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