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L’ultimo lupo – La nostra recensione

Una favola ideologica dalla massima potenza visiva per il regista di Sette anni in Tibet

L'ultimo lupo

L'ultimo lupo

23.03.2015 - Autore: Alessia Laudati
Lo spirito della natura più ruvida, che costringe a chiederti chi sei e il richiamo politicizzato a una maggiore attenzione ai temi ambientali, sono i due temi al centro dell’ultimo film di Jean-Jacques Annaud, presentato al Bif&est 2015. Il regista francese, che ha già abituato il pubblico alla narrazione eroica con Sette anni in Tibet, non delude le aspettative di quanti vedono nel suo cinema una sintesi perfetta di spiritualità e grandi mezzi da kolossal hollywoodiano. 
 
Anche questa volta la visione è stratosferica e il messaggio politico-esistenziale non retrocede di fronte agli scenari naturali della Mongolia più selvaggia. Una sintesi difficile da compiersi soprattutto perché il punto di partenza di L’ultimo lupo è il best seller cinese Il totem del lupo di Jiang Rong, un’opera che nel paese asiatico è seconda come diffusione e popolarità solamente al Libretto rosso di Mao Zedong. Malgrado ciò Annaud non retrocede di fronte all’opera monumentale, né tantomeno oscilla davanti alla sensibile sfida tecnica di girare nelle steppe cinesi, ma piuttosto trasforma una storia molto ben localizzata, nell’epopea di un uomo e di un’umanità sedotta dalla potenza della natura come antidoto potente alla dittatura di massa. Lo scopo della permanenza di Chen Zhen (Shaofeng Feng), uno studente di Pechino che nel 1967 viene spedito dal governo per due anni a vivere all’interno delle comunità nomadi della Mongolia interna con l’obbiettivo di educare la tribù ai principi della Rivoluzione Culturale, sarà presto rivoluzionato dal contatto diretto con un branco di lupi.

Animali che nel profondo costituiscono un esempio di individualismo e dignità, e che seducono presto il giovane fino a contaminarne l’ideologia politica e il pensiero unico. Questa sorta di risveglio della coscienza, che è a livello più grande rappresenta una critica aspra alla politica ambientale cinese e all’annichilimento della personalità individuale tipica del regime, non potrebbe dirsi tale senza la piena coincidenza tra la metafora umana e quella naturale.

Per Jean-Acques Annaud, essa è sempre il mezzo che costringe l’umanità a spogliarsi di eventuali stereotipi proiettati dall’alto. Questa volta però la descrizione della forza naturale, compresa anche quella dei lupi, supera di gran lunga ogni aspettativa. Maneggiando i toni cruenti, passando per le grandi scene d’azione, sperimentando l’uso della tecnologia del 3D e soprattutto non facendo sconti all’etica che pervade tutto il film, il regista francese gira un’opera dal sapore decisamente sublime. Una pellicola, portata termine dopo ben sette anni di gestazione, della quale si apprezza la dimensione epica a partire dal primo singolo fotogramma. 
 
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