Kingston, Giamaica: nel 1973 D. (for Dennis) è un ragazzino, mentre le gang di Tappa e Spicer si scontrano causando la morte di una bambina innocente. E quando il fratello maggiore muore nel tentativo di riavvicinare le due opposte fazioni in una serata di musica in piazza a ritmo di Reggae, Peace & Love. D. (for Dennis) - adulto, ovviamente - è l'Aml Ameen di Sense8 e Maze Runner, qui protagonista di Yardie, primo lungometraggio per il grande schermo diretto da Idris Elba, attore londinese alter ego del DJ Big Driis mai abbandonato.

Tanto meno nel passaggio dietro la macchina da presa, nel quale evidentemente il britannico (di madre ghanese e padre della Sierra Leone) ha voluto sposare le sue due più grandi passioni componendo un crime drama decisamente particolare. Soprattutto se goduto nella versione presentata, priva di doppiaggio. Questo, soprattutto per le inflessioni linguistiche dei protagonisti - per molti di noi totalmente inusuali - giamaicani.
Tornano i mente i bassifondi disperati e surreali del Guy Ritchie più amato, ma stavolta il tono è alleggerito dalla filosofia rastafari, onnipresente nello scontro tra 'Sound System' e nel sottobosco illegale nel quale ci si muove. Si sfiora il paradosso a più riprese, e non solo per la prolungata rappresentazione di una Londra solatia e luminosa come la Milano cantata dal Venditti dei bei tempi, fino ad accettarlo come elemento fondante e caratteristico del progetto.

Che offre certo non un risultato indimenticabile, ma sicuramente originale. Non nello sviluppo o nelle dinamiche narrative, né per il finale, decisamente classico, quanto piuttosto per le contaminazioni portate a un contesto e a dei personaggi usualmente piuttosto diversi. Un film da vedere 'con lentezza', sintonizzandosi sulla generale 'coolness' del suo autore, in primis, che speriamo di ritrovare davanti alla macchina da presa dopo questo personalissimo divertissement.

Tanto meno nel passaggio dietro la macchina da presa, nel quale evidentemente il britannico (di madre ghanese e padre della Sierra Leone) ha voluto sposare le sue due più grandi passioni componendo un crime drama decisamente particolare. Soprattutto se goduto nella versione presentata, priva di doppiaggio. Questo, soprattutto per le inflessioni linguistiche dei protagonisti - per molti di noi totalmente inusuali - giamaicani.
Tornano i mente i bassifondi disperati e surreali del Guy Ritchie più amato, ma stavolta il tono è alleggerito dalla filosofia rastafari, onnipresente nello scontro tra 'Sound System' e nel sottobosco illegale nel quale ci si muove. Si sfiora il paradosso a più riprese, e non solo per la prolungata rappresentazione di una Londra solatia e luminosa come la Milano cantata dal Venditti dei bei tempi, fino ad accettarlo come elemento fondante e caratteristico del progetto.

Che offre certo non un risultato indimenticabile, ma sicuramente originale. Non nello sviluppo o nelle dinamiche narrative, né per il finale, decisamente classico, quanto piuttosto per le contaminazioni portate a un contesto e a dei personaggi usualmente piuttosto diversi. Un film da vedere 'con lentezza', sintonizzandosi sulla generale 'coolness' del suo autore, in primis, che speriamo di ritrovare davanti alla macchina da presa dopo questo personalissimo divertissement.