Fausto Brizzi torna alla regia, e lo fa con un'idea, sulla carta, irresistibile. Una band di musica pop che ha incontrato una breve stagione di successo negli anni '80 deve riunirsi per suonare a un evento organizzato da un oligarca russo fanatico della musica italiana. I quattro, le cui vite sono allo sbando per varie ragioni, scopriranno di essere in realtà l'ingranaggio di un piano per svaligiare il caveau del riccone, e decideranno di dirottarlo per diventare ricchi sfondati.
La mia banda suona il pop vorrebbe dunque essere una commistione di due generi: da un lato la commedia generazionale e nostalgica che ha reso celebre il regista. Dall'altro il film di rapina, o heist movie, in cui un piano ben delineato si scontra con la realtà, sempre caotica e incontrollabile. Purtroppo il film fallisce su tutti i piani.
Fallisce come heist movie, innanzitutto. Il film di rapina non è cosa per tutti, è molto difficile da realizzare e richiede una scrittura a orologeria, un meccanismo oliato quanto quello del piano che si dipana sullo schermo. Bisogna avere polso, saper gestire tempi e colpi di scena. Il canovaccio è sempre lo stesso, ma bisogna saperlo maneggiare alla perfezione. Brizzi, invece, quando non sa come far avanzare in maniera credibile il plot si affida a sprazzi di commedia che, forse, vorrebbe essere surreale, ma che sa più da numero del Bagaglino. E oltretutto suona come una scorciatoia pigra e scorretta, un “buttare tutto in caciara” che dovrebbe distrarre il pubblico dalla mancanza di scrittura.
E magari potrebbe anche riuscire a farlo se, almeno dal punto di vista della commedia, il film fosse vincente. E invece fallisce anche qui. Tutto inizia anche piuttosto bene, con una buona idea: mostrare prima i quattro scalcagnati protagonisti nella loro versione giovane, in un video girato come se fosse preso dalla puntata di un varietà d'epoca. Con un effetto morphing basilare ma funzionale, anche grazie alla scelta di quattro interpreti giovani che ricordano abbastanza bene gli attori, passiamo al presente: Christian De Sica, Massimo Ghini, Angela Finocchiaro e Paolo Rossi sono dei falliti che non sono riusciti assolutamente a capitalizzare sul loro breve successo. Li vediamo alle prese con esistenze grottesche: uno è un cantante di pianobar che si esibisce per i boss della mala, l'altro lavora in una ferramenta di proprietà della moglie. Una è alcolizzata, l'altro un barbone che si esibisce per strada con la chitarra. È il sogno colorato degli anni '80 che si scontra con la dura realtà post-crisi. Fino a qui, tutto bene (o quasi).
Poi entra in scena Diego Abatantuono, che assolda i suoi vecchi clienti per la data in Russia. Il film dovrebbe decollare, e invece se ne palesa rapidamente l'incapacità di fare qualcosa con una così bella premessa. I dialoghi stentano, la comicità latita, tra tempi comici sbagliati e battute vecchie, basate su doppi sensi grevi (Natasha/bagascia, il livello è questo). A questo aggiungiamo una direzione degli attori inesistente: tutti appaiono confusi, incerti su come muoversi nell'inquadratura. Paolo Rossi, in particolare, sembra uno preso davvero da un angolo di strada (come il suo personaggio), che non abbia mai visto un palcoscenico in vita sua. Gli attori recitano spesso guardando in avanti, come se fossero a teatro. L'atmosfera è quella di una recita tra amici, quasi che a finire nel montaggio siano state le prove generali e non la versione finale delle scene.
Un film abborracciato, frettoloso, quasi improvvisato, costruito senza uno straccio di professionalità. E dire che Brizzi di esperienza ne ha ormai da vendere e il co-sceneggiatore Marco Martani, suo fidato collaboratore, ha anche scritto La mafia uccide solo d'estate e In guerra per amore di Pif. Un vero peccato: gli abissi di follia raggiunti dal pop italiano anni '80 hanno un potenziale cinematografico e comico infinito, che qui non viene nemmeno toccato.
La mia banda suona il pop è distribuito nei cinema da Medusa.