Ci saranno punti de La grande scommessa che non capirete. Ci saranno punti in cui vi ritroverete a grattarvi la testa, lo sguardo vitreo, la mente piena di domande a cui solo qualche lettura post-proiezione potrà dare una risposta. Ma per tutti questi momenti, ce ne saranno altrettanti in cui potrete dire con soddisfazione: “Ho capito... quasi”. E questo è senz'altro il maggiore successo del film di Adam McKay.
Il regista, guru della commedia americana con all'attivo titoli come Anchorman e Fratellastri a 40 anni, cambia totalmente tono e dirige un adattamento del libro non-fiction di Michael Lewis, in cui si racconta l'esplosione della bolla dei mutui subprime e il conseguente tracollo del mercato globale del 2007-2008. La cosa interessante è che, per una volta, non seguiamo gli eventi dal punto di vista delle vittime, né da quello dei carnefici, ma da quello dei “furbetti” esperti di borsa che, fiutato l'imminente disastro, decisero di puntare contro la stabilità dei mutui e contro il mercato americano, finendo per arricchirsi a spese del mondo intero.
I personaggi sono abbastanza stereotipati: c'è l'eccentrico manager di un hedge fund, Michael Burry (Christian Bale), che se ne va in giro in maglietta, scalzo e ascolta heavy metal mentre lavora; c'è Jared Vennett (Ryan Gosling), narratore del film e “lupo di Wall Street” che subodora il tracollo con largo anticipo, così come i due giovani investitori Charlie Geller (John Magaro) e Jamie Shipley (Finn Wittrock), aiutati da un ex mago della finanza (Brad Pitt). E poi c'è Mark Baum (Steve Carell), capo di un hedge fund con un passato traumatico (non è riuscito a fermare il suicidio del fratello) che lo ha spinto a una totale sfiducia nei confronti del sistema in cui prima credeva. Quest'ultimo è il personaggio più interessante, perché parte da uno stereotipo, ma diventa presto l'ancora morale del film. Anche se “morale” è un termine relativo: certamente, Baum è mosso da desiderio di rivalsa nei confronti dei colossi bancari, che vede come il male, eppure alla fine si arricchisce come tutti gli altri a scapito di milioni di posti di lavoro – e molti altri suicidi. Ma è proprio l'ambiguità morale a salvare molti dei personaggi, facendo funzionare le loro singole storie e gli intrecci tra esse.
McKay svolge bene un compito difficile: come si diceva, per quanto ci siano scene in cui lo slang finanziario impedisce di capire un buon 90% di quello che viene detto, ce ne sono altre in cui, con semplici stratagemmi e “spiegoni” ben piazzati, il regista riesce a far capire agli spettatori le grandi linee. Tali stratagemmi includono: Margot Robbie in una vasca da bagno piena di schiuma, il padre della finanza comportamentale Richard Thaler a un tavolo da gioco di Las Vegas insieme a Selena Gomez, oppure ancora Ryan Gosling che paragona la stratificazione dei mutui a una partita di Jenga. Scelte a volte spiazzanti (la Robbie e la Gomez interpretano se stesse, in scene che interrompono il flusso della finzione) che però ci si aspetta da un regista di commedie. Eppure, uno dei difetti del film è che molti tentativi di ironia cadono un po' a vuoto o sanno di già visto, come il personaggio di Gosling che maltratta il suo assistente.
L'atto finale si svolge in buona parte a Las Vegas, durante una convention finanziaria, e la metafora, per quanto un po' troppo gridata, è efficace: stiamo parlando di un'élite che per decenni ha giocato d'azzardo con i risparmi, le vite e le certezze di una nazione, anzi del mondo intero, e vederli muoversi tra tavoli da gioco e slot machine aggiunge un'aura sinistra al tutto. Il finale, in cui il crollo delle borse mondiali è ripreso in un silenzio spettrale, è forse la cosa più potente e riuscita del film: quando arriva, l'apocalisse non fa rumore come in un film di Michael Bay. È silenziosa e non lascia scampo.
La grande scommessa, ora nei cinema, è distribuito da Universal Pictures.