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"La Dea del '67"
"La Dea del '67"

15.02.2001 - Autore: Beatrice Rutiloni
La Citroèn DS 19, soprannominata Deèsse che in francese vuol dire Dea, fu la macchina Piovuta dal cielo e che dal 59 al 73, quando luomo cominciò ad esplorare lUniverso, vinse tutti i Rally sulla terra. Fu il prodotto di uningegneria spaziale che negli anni sessanta invadeva gli oggetti più domestici, dallarredamento, nel gusto di certi posacenere o di un semplice frullatore, agli abiti, e fino alle automobili, con delle fantastiche sospensioni aria/olio che allaccensione facevano decollare come se si trattasse di una navicella spaziale. Ora tutto questo è puro vintage. Niente di più attraente per un giovane abitante di Tokyo, simbolo del post modernismo assetato di Europa ai limiti del paradosso (solo i giapponesi sarebbero capaci di spendere 35000 dollari per unauto usata e altrettanti per un paio di scarpe da ginnastica Puma, purché originali anni settanta).
Cè molta filosofia orientale in La dea del 67 della regista Clara Law, Hongkongese di nascita e australiana dadozione, cè lincontro oriente e occidente sospeso, non risolto, in questo borderline road movie. Ci sono i principi di Confucio nella bella faccia da modello di Prada di JM (Rikiya Kurokawa), cè il complesso di colpa eterno che la religione cattolica da sempre produce nei suoi fedeli, racchiuso nel terribile segreto di BG (Rose Byrne, che per questa interpretazione ha meritato la Coppa Volpi allo scorso festival di Venezia), una spensierata ragazza cieca, una paurosa Pippi-Calzelunghe dei nostri giorni. Poi cè il deus ex machina, lei, la Dea. Che solleva dalle brutture della vita, che fa volare, che è occhi per vedere e mezzo per scappare. Ma, è ancora la filosofia orientale a far perdere valore al viaggio catartico, perché si è ciò che si è fin dalla nascita, e bisogna solo accettarsi. Per questo il film può risultare incompleto. I personaggi sono solo accennati nella narrazione, ma in realtà vengono sottilmente disegnati come scarti della memoria; la vicenda può sembrare troppo irreale e al limite grottesca, quando invece è pura fantasia e viaggio irrisolto allinterno di due individui. E un film sfuggente, indefinibile, tutto giocato su una fotografia (di Dion Beebe, lo stesso di Holy Smoke, alla sua seconda collaborazione dopo Floating life con la Law) tesa ad esasperare i vari livelli di narrazione, tra passato e presente, in maniera opposta al consueto. Rende cioè il presente surreale, una specie di viaggio visivo, con lo scolorimento del negativo e luso di tonalità ambigue e non primarie, perché emozionante, vivo e bello, è il passato, pieno di ricordi tristi e di toni cromatici ad essi corrispondenti, ma più netti, più semplici. Come a dire che il lato oscuro, quando viene fuori, assume dei contorni ben precisi, e allora si vola su una Dea, quasi appesi alla realtà.