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KADOSH
KADOSH

21.05.2001 - Autore: Fabrizio Marchetti
Il cinema come punto di partenza per una riflessione antropologica-culturale dellebraismo ultraortodosso. Il linguaggio filmico come espediente per oltrepassare le mura del quartiere Mea Shearim di Gerusalemme. Ecco allora che le molte differenze ideologiche ed etniche che separano quel mondo dal nostro divengono così sottili da non essere percepite. Non si tratta ovviamente di un annullamento culturale tra due prospettive di vita (quella occidentale e quella orientale) decisamente lontane tra loro, quanto piuttosto di unoperazione di familiarizzazione delle problematiche portata avanti dal regista israeliano Amos Gitai: scevro da ogni canone estetico tipicamente documentaristico, Kadosh viene essenzialmente centrato sulla dinamica psicologica dei personaggi e ciò finisce inevitabilmente per agevolare lopera di interiorizzazione dei valori inscenati anche da parte del pubblico nostrano.
Di qui la scelta di un codice narrativo semplice, costantemente sostenuto dalla forza delle immagini, dalla profondità degli sguardi, dallessenzialità dei dialoghi. Una decisione, questa, che conferisce alla pellicola quasi una spiritualità immanente, riflessa perfettamente nella concezione sacrale delle tematiche affrontate. Sofferenza, fede, vita e realtà si fondono e confondono tra loro, generando nello spettatore un tumulto di sensazioni estremamente variegate, non in ultimo il senso di impotenza denunciato da una condizione femminile perennemente emarginata dal verticismo maschilista dellestremismo ebraico.
Presentato con successo al Festival di Cannes del 1999, Kadosh ha così concluso efficacemente litinerario ideale tracciato da Gitai dopo le ricognizioni effettuate sulle comunità di Tel Aviv (Devarim) e Haifa (Yom-Yom).