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John Wayne a 40 anni dalla morte, cinque film per celebrare il Duca

Il mito del cinema western si spegneva l'11 giugno 1979. Ecco le immagini di una filmografia immortale

07.06.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
Marion Michael Morrison. L’avete riconosciuto? Il Duca, John Wayne. Lo spirito dell’America anni Cinquanta, il simbolo di un popolo. Aveva più consensi del presidente degli Stati Uniti. Ha segnato la storia del cinema, sfidando tutti quelli che sostenevano non sapesse recitare. Icona dei western di John Ford, Howard Hawks… Vanta una filmografia sterminata, quasi sempre in sella e pronto a sparare.

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L’11 giugno sono quarant’anni dalla sua morte,
ma è quasi impossibile selezionare solo cinque film per ricordarlo. È un indimenticabile sceriffo in Un dollaro d’onore (foto sopra), un capitano dell’esercito ne I cavalieri del Nord Ovest, un pugile che torna a casa in Un uomo tranquillo. E quel bacio con Maureen O’Hara al cimitero, sotto la pioggia, ha segnato generazioni intere di cineasti.



Ombre rosse (John Ford, 1939): Una diligenza nel deserto. La macchina da presa corre a 60 km/h per starle dietro durante l’inseguimento con gli indiani. Ford torna al western e Wayne raggiunge il successo. Lui è il fuorilegge Ringo Kid, in realtà più innocente dei suoi compagni di viaggio: un medico alcolizzato, una prostituta, un rappresentante di liquori senza midollo… Pietra miliare del genere, analisi sociologica lucidissima, critica contro il New Deahl di Roosevelt. Con forse una delle fughe d’amore più belle di sempre.



Il fiume rosso (Howard Hawks, 1948): La quintessenza del mito della frontiera. Riferimenti biblici, l’unificazione di un Paese. La sequenza della mandria che inizia il suo viaggio è una delle più imponenti mai riprese. Qui Wayne è un mandriano testardo, schiacciato dalla responsabilità del potere. Forse per la prima volta è un eroe che si scopre umano. Si lancia in avventure epiche, sbaglia, torna sui suoi passi, e la risolve alla vecchia maniera: a mani nude. Perché dalla polvere del West sorge l’identità di una nazione.



Sentieri selvaggi (John Ford, 1956): C’è un reduce sudista (Wayne), che dopo aver fatto l’impresa non entra in casa, resta sulla parte. La sua condanna è la solitudine, un destino da cavaliere errante. Spielberg rifarà la stessa inquadratura in Salvate il soldato Ryan. Il Duca incarna il senso di colpa degli Stati Uniti per le vittime della Seconda Guerra Mondiale, è il guerriero reietto, e non celebrato. In un mondo che non accetta le differenze, dove anche il salvatore medita di uccidere il suo stesso sangue, perché ormai diventato indiano. Magnifico, forse il suo film più bello.

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L’uomo che uccise Liberty Valance (John Ford, 1962): “Qui siamo nel West, dove quando la leggenda supera la realtà, si narra la leggenda”. Battuta da antologia, ancora più diretta nel “Print the Legend!” originale. La fine di un’epoca: John Wayne accompagna il passaggio di consegne dalla legge dei cowboy a quella dello Stato. Ma fino alla fine rimane fedele al suo personaggio, in un’interpretazione malinconica, struggente. È il western che si fa melodramma. Qui duetta con James Stewart, e per un attimo ci sembra quasi che John Ford incontri Anthony Mann.



Il Grinta (Henry Hathaway, 1969): L’unico Oscar per il miglior attore nella carriera di Wayne. Il suo Rooster Cogburn detto “Il Grinta” svetta anche sul giovane Robert Duvall. È un mostro sacro sulla via del tramonto, un mito. Uno sceriffo con un occhio solo, innamorato della bottiglia, che cerca la redenzione. Tormentato e magnetico, all’apparenza inscalfibile, ma con un lato umano molto profondo. Hollywood premia l’uomo che l’ha resa grande, si toglie il cappello davanti al suo beniamino. Con un seguito: Torna “El Grinta”, e un remake (Il Grinta) targato fratelli Coen.