NOTIZIE

Io, Dio e Bin Laden, la recensione

Nicolas Cage e il regista Larry Charles insieme per un film incredibile sotto ogni aspetto  

Nicolas

24.07.2018 - Autore: Gian Luca Pisacane
L’estate porta in sala avanzi di listino, storie che non hanno avuto successo neanche nel Paese d’origine. Avventure del 2016 approdano nei nostri cinema in ritardo, nella speranza che almeno l’aria condizionata invogli lo spettatore a comprare il biglietto. È il caso di Io, Dio e Bin Laden, a cui il titolo italiano sembra rendere ancor meno giustizia di quello d’oltreoceano: Army Of One, ovvero un esercito formato da un solo uomo, come cantano anche i Coldplay.

Il nostro eroe è Nicolas Cage, re indiscusso delle interpretazioni sopra le righe e dei flop di stagione. La sua eccentricità è conosciuta in tutto il mondo, il talento si è perso nell’affondamento della Uss Indianapolis (dove faceva un capitano tutto d’un pezzo), o forse molto prima. Oggi gli restano la passione/ossessione per Elvis Presley e la parentela con Francis Ford Coppola. Proprio in queste settimane abbiamo visto Cage prestare il volto a un piedipiatti vicino alla pensione in 211 – Rapina in corso e, se il film troverà una distribuzione, tornerà nel pirotecnico Mandy, tra possessioni, fiumi di sangue e motoseghe. Il suo marchio di fabbrica è l’eccesso, l’impossibilità di contenersi, il voler essere al centro della scena con urla ed espressioni esagerate. Il suo fascino (per i fan incalliti) è quello dell’anima disperata, del cattivo ragazzo senza redenzione.



In Io, Dio e Bin Laden è Gary Faulkner, una vera celebrità in America, che ha cercato di catturare il nemico numero uno da solo, volando in Pakistan armato di una spada da samurai. Sosteneva che fosse addirittura Dio a parlargli, a guidarlo nella sua impresa. Nella vicenda, il Padreterno è rappresentato con le braccia tatuate, i muscoli tonici e l’eloquio di un galeotto. Si manifesta alla guida di un camion, nei talk show televisivi, e ammicca alla platea come se fosse un divo da strapazzo. Lo spirito è più demenziale che dissacrante, ma non ci si poteva aspettare nulla di diverso con Larry Charles dietro la macchina da presa.

Lui è il regista dell’infausto, sboccatissimo Borat, offensivo fin dal primo minuto, politicamente scorretto, più incline all’insulto che alla satira. Anche qui l’operazione è simile: scagliarsi contro le esagerazioni della cultura yankee, dimostrare che il patriottismo rischia di diventare un morbo, che minaccia la società invece di proteggerla. Ma Charles evita la politica e l’analisi sociale, si appiattisce sul delirio di onnipotenza del suo protagonista, senza scavare nell’immaginario creato dall’America First di Donald Trump, che ha fatto il giro del globo.



Un cittadino comune abbandona casa e famiglia per difendere la sua nazione, in solitudine e senza un piano. Follia? Una nuova forma di eroismo? Nessuna risposta. Charles non gioca con queste ambiguità e preferisce premere l’acceleratore sulle battute volgari, su un modo di raccontare manipolatorio, confusionario, che polarizza invece di far riflettere. Scarso successo di pubblico in patria, e da noi più adatto all’home video che al grande schermo.