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Flags of Our Fathers

Il film sembra essere un'opera troppo grande e fastosa per poter permettere a Eastwood di fare il cinema che meglio conosce: ritroviamo infatti la retorica pomposa e le facilità narrative dei suoi lavori meno riusciti

Flags of our Fathers

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Pochi, pochissimi autori nella storia del cinema sono riusciti a realizzare consecutivamente tre pellicole di valore assoluto. Clint Eastwood aveva la possibilità di riuscire nell’impresa, ma con “Flags of our Fathers” ha evidenziato purtroppo tutti i limiti del suo modo di fare cinema.  Dopo un capolavoro assoluto come “Mystic River” (id., 2003) ed un grande lungometraggio come “Million Dollar Baby” (id., 2004) il passaggio ad una produzione ad alto budget -  tra l’altro un film di guerra con relativa ricostruzione d’epoca - ha dimostrato come il “grande vecchio” si muova molto più a suo agio con operazioni più piccole ed intimiste. Tutta la bellezza ed il minimalismo delle due pellicole sopra citate si esplicitava infatti in una messa in scena dolorosa e trattenuta, capace di far affiorare personaggi e storie tanto contenute quanto preziose.

Questa sua ultima fatica è invece improntata verso lo spettacolo cinematografico in grande stile, organizzato per di più su una storia che troppo da vicino ricalca quella – ugualmente “telefonata” ma assai più funzionale – di “Salvate il soldato Ryan” (Saving Private Ryan, 1998) di Steven Spielberg. La sceneggiatura di William Broyles e di Paul Haggis fin dall’inizio si dimostra infatti un concentrato di retorica piuttosto convenzionale, fatta di personaggi non ben delineati e di situazioni spesso addirittura contraddittorie. Per ovviare poi ad un evidente problema di tenuta narrativa, sembra quasi che il film sia stato montato mescolando i diversi piani temporali apposta per nascondere la sua fragilità strutturale, che però viene fuori in molti momenti, soprattutto in un finale lunghissimo quanto stucchevole. Su questa base Eastwood si muove con sicura professionalità, ma al tempo stesso con un certo impaccio: la messa in scena è formalmente ineccepibile, ma incapace di suscitare nello spettatore un appropriato interesse su quanto accade, o almeno un senso di novità estetica – e qui ancora il film di Spielberg torna come referente primo.

Clint Eastwood è un autore capace di realizzare opere straordinarie, e lo ha dimostrato in più di un occasione. Allo stesso tempo però non è un regista a tutto tondo, un “maestro” in grado di padroneggiare qualsiasi genere e soprattutto qualsiasi tono. Commovente cantore di figure sfumate, di “loser” animati da necessità di riscatto, di fantasmi fuori dal tempo e dal mondo che li ha dimenticati, Eastwood dimostra con questo suo film “minore” di aver bisogno di progetti più personali e di assoluta libertà creativa per esprimersi al meglio.

Flags of Our Fathers” sembra essere un’opera troppo grande e fastosa per potergli permettere di fare il cinema che meglio conosce: in questo film ritroviamo infatti tutta la retorica pomposa e le facilità narrative dei suoi lavori meno riusciti. Alla fine ne è venuta fuori una pellicola dalla confezione sfavillante, ma nient’altro.