Pochi, pochissimi autori nella storia del cinema sono
riusciti a realizzare consecutivamente tre pellicole di valore assoluto. Clint
Eastwood aveva la possibilità di riuscire nell’impresa, ma con “Flags of our
Fathers” ha evidenziato purtroppo tutti i limiti del suo modo di fare
cinema. Dopo un capolavoro assoluto
come “Mystic River” (id., 2003) ed un grande lungometraggio come “Million Dollar
Baby” (id., 2004) il passaggio ad una produzione ad alto budget - tra l’altro un film di guerra con relativa
ricostruzione d’epoca - ha dimostrato come il “grande vecchio” si muova molto
più a suo agio con operazioni più piccole ed intimiste. Tutta la bellezza ed il
minimalismo delle due pellicole sopra citate si esplicitava infatti in una
messa in scena dolorosa e trattenuta, capace di far affiorare personaggi e
storie tanto contenute quanto preziose.
Questa sua ultima fatica è invece
improntata verso lo spettacolo cinematografico in grande stile, organizzato per
di più su una storia che troppo da vicino ricalca quella – ugualmente “telefonata”
ma assai più funzionale – di “Salvate il soldato Ryan” (Saving Private Ryan,
1998) di Steven Spielberg. La sceneggiatura di William Broyles e di Paul Haggis
fin dall’inizio si dimostra infatti un concentrato di retorica piuttosto
convenzionale, fatta di personaggi non ben delineati e di situazioni spesso
addirittura contraddittorie. Per ovviare poi ad un evidente problema di tenuta
narrativa, sembra quasi che il film sia stato montato mescolando i diversi
piani temporali apposta per nascondere la sua fragilità strutturale, che però
viene fuori in molti momenti, soprattutto in un finale lunghissimo quanto
stucchevole. Su questa base Eastwood si muove con sicura professionalità, ma al
tempo stesso con un certo impaccio: la messa in scena è formalmente
ineccepibile, ma incapace di suscitare nello spettatore un appropriato
interesse su quanto accade, o almeno un senso di novità estetica – e qui ancora
il film di Spielberg torna come referente primo.
Clint Eastwood è un autore capace
di realizzare opere straordinarie, e lo ha dimostrato in più di un occasione.
Allo stesso tempo però non è un regista a tutto tondo, un “maestro” in grado di
padroneggiare qualsiasi genere e soprattutto qualsiasi tono. Commovente cantore
di figure sfumate, di “loser” animati da necessità di riscatto, di fantasmi
fuori dal tempo e dal mondo che li ha dimenticati, Eastwood dimostra con questo
suo film “minore” di aver bisogno di progetti più personali e di assoluta
libertà creativa per esprimersi al meglio.
“Flags of Our Fathers” sembra essere
un’opera troppo grande e fastosa per potergli permettere di fare il cinema che
meglio conosce: in questo film ritroviamo infatti tutta la retorica pomposa e
le facilità narrative dei suoi lavori meno riusciti. Alla fine ne è venuta
fuori una pellicola dalla confezione sfavillante, ma nient’altro.


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Flags of Our Fathers
Il film sembra essere un'opera troppo grande e fastosa per poter permettere a Eastwood di fare il cinema che meglio conosce: ritroviamo infatti la retorica pomposa e le facilità narrative dei suoi lavori meno riusciti

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani