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Dopo Saw e Hostel, arriva Escape Room - La recensione

Niente di nuovo, solo un altro brivido per chi si sa accontentare. Nei cinema dal 14 marzo

28.02.2019 - Autore: Gian Luca Pisacane
Atmosfere claustrofobiche, la “verità” che si piega al volere del demiurgo di turno. Il cinema horror continua ad alimentare la sua dimensione videoludica, legata più all’entertainment su piattaforma che al grande schermo. Nuove sfide, enigmi sempre più contorti, la vita che si trasforma in un gioco mortale. Si parte da The Game di David Fincher, per arrivare a franchise di successo come Saw e Hostel. Il bagno di sangue è sempre assicurato, i fan del torture porn trovano pane per i loro denti.

Alcuni moralisti gridano allo scandalo, altri si gustano la mattanza come se fossero al Circo Massimo. In più c’è sempre una certa passione per i grandi intrighi, le cospirazioni internazionali. Spesso in questi film esiste un’élite che gode nel vedere il massacro dell’uomo comune. Ricchi signori pagano cifre esorbitanti per abbandonarsi a piaceri pochi ortodossi, legati al sadismo e a un certo tipo di appetiti sessuali. Come in Quella casa nel bosco, dove l’incubo si fa reality e si assiste a riflessioni metanarrative sul genere, con tanto di riferimento all’immancabile Lovecraft.



Rimescolando questi guilty pleasure, che i benpensanti bollerebbero come “proibiti”, si ottiene Escape Room. L’operazione nasce dal crescente successo appunto delle escape room, percorsi composti mediamente da cinque o sei stanze diverse, dove bisogna risolvere alcuni indovinelli per accedere all’ambiente successivo. Tutto naturalmente si svolge in sicurezza, e si può interrompere la “partita” in qualsiasi momento, alzando semplicemente la mano.

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Ma se non fosse così? Se a osservare fossero dei folli innamorati della morte? Questa è l’anima di Escape Room. La formula è stereotipata e piuttosto semplice: ci si rivolge a una platea giovane, e si crea una situazione in stile Breakfast Club, dove più classi sociali formato teenager si incontrano e si dà fondo ai traumi di ognuno. Dopo aver sviscerato l’elemento umano, si immerge l’allegro gruppetto nell’orrore al grido di: “Ne resterà solo uno, che vinca il migliore”.

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Così Escape Room si trasforma in un poco ispirato mix di cliché, con il cervellone, il giovanotto in carriera, il soldato in crisi… Fino a dar sfogo al classico finale esasperato, dove il male assoluto ci mette lo zampino e si aprono le porte a un secondo capitolo. L’intero quiz show viaggia con il freno tirato, riduce all’osso le riprese in esterni, e proietta il suo pubblico in una ricerca forsennata della chiave per aprire la prossima porta.

Il lato positivo è che questa volta ci si concentra più sulla cura degli interni che sull’uso spericolato della violenza. Il bar capovolto (upside down), con il juke-box che continua a suonare, è l’unico guizzo nostalgico che in qualche modo affascina. Per il resto si aspetta che la carneficina finisca, si sorride all’ammicco iniziale a Cube di Vincenzo Natali, per poi alzarsi, tirare un sospiro di sollievo, e tornare nel mondo reale.  

Escape Room, nelle sale dal 14 marzo, è distribuito da Warner Bros