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Cinderella Man

L'essenza di Jim Braddock, in un'epoca feroce come la Grande Depressione americana, si esplicita nell'elemosinare il denaro necessario a pagare le bollette, a riportare i propri figli in una casa riscaldata

Cinderella Man

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
 

Cinderella Man
Id. Usa, 2005
Di Ron Howard
con Russell Crowe, Renée Zellweger, Paul Giamatti, Paddy Conditine, Bruce McGill, Craig Bierko

 Adesso so perché combatto. Combatto per avere il latte. Dietro la retorica se vogliamo 'populista' di una frase del genere si cela invece la verità e la semplicità di un personaggio.

Il coraggio di Jim Braddock, del Cinderella Man, non si presenta sul ring; la sua forza non è nella vittoria su un avversario che indossa gli stessi guantoni. L’essenza di quest’uomo, in un’epoca feroce come la Grande Depressione americana, si esplicita  nell’elemosinare il denaro necessario a pagare le bollette, a riportare i propri figli in una casa riscaldata.

In un festival decisamente sottotono, dove fino ad ora tutti gli autori più pubblicizzati hanno dato prova di avere il fiato piuttosto corto, il cinema che invece punta alla linearità narrativa ed al raggiungimento di un pubblico sempre più vasto sta facendo decisamente la figura del leone. Dove la troppo confusa idea di autorialità sta scricchiolando, ecco invece salda e precisa l’affermazione di un prodotto popolare. Puntare sulla forza della storia, sull’efficacia di meccanismi di scrittura ormai consolidati da una pratica sempre funzionale; concepire la messa in scena come coerente realizzazione di quanto progettato in fase di sceneggiatura; cercare degli snodi narrativi ed un’estetica capaci di raggiungere l’immaginario collettivo, e quindi rivolta al consenso del pubblico: questo intendiamo quando parliamo di spettacolo 'popolare', un termine che perciò usiamo come tutt’altro che dispregiativo.

 Dopo il folgorante melodramma di Ang Lee e la grande vena dolce-amara di Cameron Crowe, ecco Cinderella Man”, spettacolo popolare se mai ce ne è stato uno, opera che conferma Ron Howard come uno dei maggiori registi del panorama hollywoodiano quando si tratta di fare cinema solido e penetrante. E questa cine-biografia del pugile Jim Braddock è di gran lunga il suo miglior film, una commistione perfetta di tutti gli elementi fondamentali che compongono la realizzazione di un lungometraggio; la sua grande forza infatti sta proprio nella sua perfetta adesione a tutta quella serie di stilemi che hanno reso immortale il cinema americano, quello cioè ritenuto 'classico'.

E’ inutile cercare la novità della cifra stilistica o il bizzarro artificio drammaturgico che sconvolga una scaletta già prestabilita: non si deve chiedere questo ad un prodotto del genere. Ma quando si capisce e soprattutto si conosce il tipo di cinema di cui fa parte questa pellicola, ecco che allora non ci si può non accorgere di trovarsi di fronte ad un prodotto di valore assoluto: dalla regia allo script, dalla fotografia agli attori – Paul Giamatti riesce a toglierti il fiato con uno sguardo -, tutto è prezioso e funzionale, diretto verso lo spettatore come opera capace di (ri)fondare l’epica di cui si nutrivano le grandi produzioni di un tempo, come ad esempio quelle di Elia Kazan, tanto per intenderci. Non è forse un caso se proprio Ron Howard, dopo “Il codice Da Vinci”, dovrebbe realizzare una nuova trasposizione de “La valle dell’Eden” di Steinbeck.