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Brooklyn - La recensione in anteprima

Al New York Film Festival ritroviamo Saoirse Ronan in una storia di immigrazione fin troppo convenzionale

24.11.2015 - Autore: Mattia Pasquini (nexta)
Abbiamo ancora nella memoria il C'era una volta a New York (The Immigrant, in originale) di James Gray, a raccontarci di amanti sulla soglia di un nuovo mondo, di difficoltà e dubbi, che ecco John Crowley portare sullo schermo il Brooklyn presentato al New York Film Festival e sceneggiato da Nick Hornby (dopo An Education e Wild), appositamente per lo schermo. Una storia d'amore più convenzionale in questo caso, anche troppo, che si mostra più interessante nell'affrontare un inevitabile quanto implicito rapporto con le proprie radici.



Meno paludato di altri, anche stavolta vediamo vediamo rappresentata l'immigrazione negli Stati Uniti nel secolo scorso secondo la ricostruzione di immagini e situazioni d'epoca e, soprattutto in questo caso, un vero abuso di stereotipi. Sugli irlandesi, e sugli immancabili italiani. Senza dubbio "gli uomini che hanno costruito ponti, tunnel e autostrade", come ci viene ricordato, e che indubbiamente restavano legati a gesti e tradizioni natali al punto da farne macchiette, ma che forse al cinema abbiamo già visto in abbondanza.

Ma non ci aspettavamo un un film 'simbolo' o particolarmente originale da Crowley, in fondo. Non un regista di grido, per quanto abituato a lavorare con attori importanti (da Michael Caine a Peter Mullan, Andrew Garfield o Eric Bana), e soprattutto con Colin Firth, recentemente diretto in un paio di episodi dell'ultimo True Detective. Ci saremmo forse aspettati di più dalla trasposizione di Hornby di un romanzo (il Brooklyn dell'irlandese Colm Tóibín) tanto premiato e inserito tra i migliori romanzi storici da più recensori.



Il consiglio di "pensare come un americano", dato alla protagonista (Saoirse Ronan) per superare i controlli di Ellis Island, si declina infatti nel "pensare gli immigrati come un americano dell'epoca", con il suddetto campionario di cliché. Ed è invece l'essere se stessi di questi personaggi che si apprezza maggiormente. La semplice descrizione delle rigidità del paese d'origine, delle difficoltà di vivere in un contesto e con compagni obbligati, della solitudine sono un punto di partenza che per fortuna viene rapidamente e facilmente metabolizzato (e senza indulgere in drammatizzazioni inutili), lasciando spazio al lento emergere di altre debolezze

Il bisogno di essere amata e il dubbio che questa necessità possa informare le proprie scelte lasciano aperta una porta, e vari interrogativi. Che ognuno potrà risolvere come meglio crede, anche per il loro relativo trattamento a livello narrativo. Una porta che la Eilis Lacey protagonista attraversa più volte, nel rimpianto e poi nella negazione delle proprie radici. O semplicemente nella costruzione di nuove.