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X-Men: The Last Stand

Terzo compositore per il terzo capitolo sui mutanti Marvel, John Powell al cospetto di Wolverine e alla mercé del già sentito

X-Men 3: Conflitto Finale

12.04.2007 - Autore: Giuliano Tomassacci
Ci sono colonne sonore che impongono valutazioni problematiche. Il trascorso artistico del loro autore, la collocazione nel contesto cinematografico d’appartenenza, la resa generale a contatto con il fotografico quanto il loro ascolto autonomo, implicano doverose constatazioni che nel caso di altri commenti potrebbero risultare semplicemente secondarie, o comunque trascurabili ai fini di quel giudizio finale che potrebbe eventualmente ridursi al riscontro della loro funzionalità audiovisiva – restando quest’ultimo, com’è giusto che sia, il compito finale e fondamentale di ogni musica applicata alle immagini. La partitura di X-Men: The Last Stand rientra prepotentemente nel primo caso.

Innanzitutto a causa del suo autore, John Powell. Tra i più quotati outsider della nuova generazione cine-musicale hollywoodiana, il compositore inglese ha da tempo dimostrato una personalità smaccata e inusuale, collimando una spiccata freschezza stilistica con un approccio strumentale all’insegna del cross-over classico-contemporaneo: sound elettronico e synth-design come intelaiature ritmiche di convincenti esuberanze sinfoniche. Moderno, accattivante, non di rado vintage, il suo sound ha finora passato le non facili prove del thrilling-spionistico (il dittico intitolato a Jason Bourne), dell’action glamour (The Italian Job, Paycheck), dell’intimistico e della commedia sfrontata (Mi Chiamo Sam, Two Weeks Notice), del cartoon (Robots, L’Era Glaciale: Il Disgelo) sempre con ottimi voti. Era dunque lecito aspettarsi per la sua prima incursione nel territorio fumettistico uno score nuovamente caratterizzato da tale, indomita originalità di trattamento. Ai fatti invece la delusione risulta al primo ascolto addirittura cocente. Certamente Powell non ricalca il già non eccelso commento di Michael Kamen per il primo episodio e i passanti echi al John Ottman del sequel paiono assai limitati e comunque tutt’altro che insisti. Al contempo però le disinvolte commistioni synth-orchestra, la spigliatezza ritmica dal beat variabile e inarrestabile, le esotiche ingerenze armonico-melodiche hanno ceduto il passo, perlopiù, ad una ricca ma standardizzata declinazione dell’action scoring contemporaneo di servizio.

Ed ecco l’importanza del contesto cinematografico in cui la partitura va ad inserirsi. Evidentemente il regista Brett Ratner (al suo primo incontro con Powell dopo aver altalenato in passato tra Schifrin e Elfman) e la produzione non sono venuti meno allo stato di insicurezza affliggente la Hollywood contemporanea e hanno imbavagliato il compositore con una temp-track (le musiche provvisorie usate in fase di montaggio, spesso costruite ricorrendo ad altre colonne sonore) che è alla base della standardizzazione del commento. Passino infatti i richiami ai due patrocinatori del soundtrack per supereroi John Williams e Danny Elfman (l’impalcatura ritmica del tema principale, “Bathroom Titles”, è praticamente mutuata dalla marcia di Superman e orchestrazioni richiamanti a Batman e Spider Man affiorano di frequente), ma molte delle serrate escursioni percussive rimandano direttamente al Van Helsing di Alan Silvestri, al Don Davis di Matrix, al Zimmer istituzionale di The Rock – non di rado citati alla lettera. Totale spersonalizzazione dunque? Non proprio. Il tratto del musicista c’è, e all’ascolto attento non sarà difficile rintracciare l’attenzione alle timbriche (“Angel’s Cure”), i crescendo impetuosi costruiti in sovrapposizione (“Dark Phoenix’s Tragedy”, la punta di diamante dell’intera composizione), le palpitanti e svettanti scritture per archi del tema d’amore (“Whirpool Of Love”), qualche accenno di sintetizzatore nelle gestioni ritmiche più interessanti, la determinante scrittura per coro.

Infine la resa su pellicola e quella su disco. Anch’esse contrastanti, con la prima assolutamente puntale e funzionalissima (un dato di fatto da non sottovalutare che garantisce all’opera la sua compiutezza specifica) anche se lontana dall’incisività delle passate prove powelliane, e la seconda più sofferta, sebbene a lungo andare prodiga di maggiori soddisfazioni.

Ribadendo l’amarezza per le aspettative disattese e il predominante poco convincimento per l’esito finale di questa possibilità tutto sommato sprecata, si rimane convinti delle capacità e della coerenza di Powell. E mentre sull’onda dei plausi della critica d’oltreoceano si appresta ad arrivare in Italia anche il suo commento per United 93, ci sembra comunque giusto archiviare le musiche di X-Men:The Last Stand insieme alle più soddisfacenti del genere. Se non altro perché dall’inizio del nutrito revival fumettistico si è sentito di veramente peggio.

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