Iniziata nel 1990 con Mo’ Better Blues, la collaborazione tra Spike Lee e Terence Blanchard varca con Inside Man la soglia dei quindici anni, evidenziandosi ancora una volta tra i più riusciti, produttivi e qualitativamente compiuti sodalizi regista-compositore del panorama moderno. Non solo una tra le coppie più “silenziose” e discrete del mainstream hollywoodiano (una discrezione che non ha però ostacolato riconoscimenti e dichiarazioni di stima da parte della critica, specializzata e non) ma anche la più affiatata della recente cinematografia black. Eppure, in accordo con l’insistita emancipazione di Lee dai cliché di una corrente esasperata dalle denuncie di discriminazione razziale, una partnership capace di risultati musicali tutt’altro che vincolati dal retaggio del suond afro-americano di tendenza: pochissime venature rap o hip-hop negli score originali finora prodotti, semmai una raffinata scrittura orchestrale e competenti squarci jazz, merito soprattutto di Blanchard, già applaudito trombettista prima dell’esordio cinematografico e poi artefice di uno stile sinfonico trasudante notevole personalità. Le due prove precedenti al recente crime-thriller con Denzel Washington e Jodie Foster hanno in un certo senso compendiato questi due moduli d’approccio: il commento de La 25a Ora (indiscusso apogeo carrieristico per entrambi gli artisti), con il suo afflato lirico marcatamente affidato ad una orchestrazione post-moderna, e She Hate Me, elegante divagazione nelle sfumature urbane del cool jazz.
L’impasto musicale operato per Inside Man appare già al primo ascolto come un perspicace e felice alternarsi dei due binari stilistici. Il lungometraggio ha, in fondo, un’anima ann’70 – dichiaratamente ricercata dal regista – racchiusa in un’estetica contemporanea, e il doppio binario musicale non può che giovare al girato. Un motivo portante semplice, essenziale, dal portamento inesorabile e dotato della giusta plasticità per assecondare un tale avvicendamento formale evita poi alla partitura il rischio dell’incoerenza.
Blanchard rimette comunque mano alle grafie dominanti i due film passati adattandole ai nuovi bisogni di Lee. La densità e il pathos svettanti nelle pagine orchestrali de La 25a Ora vengono qui ridotti e il musicista alleggerisce la strumentazione insistendo soprattutto sulle parti per archi e ottoni. Sul frangente jazz, invece, la sofisticata vena cool cede il passo ad arrangiamenti maggiormente funky (il necessario ammiccare al sound anni’70). Nei numerosi estratti in cui i due moduli convivono e si sovrappongo, la partitura si carica di un sapore retrò che facilità rimandi alla scuola di Dave Grusin e Lalo Schifrin. Lee non ha nascosto di aver avuto come riferimento principale Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani, caposaldo del genere scevro di commento originale: Blanchard ha così pienamente intuito le volontà del regista che lo score di Inside Man non avrebbe stonato affatto sulle immagini di Lumet, senza attriti d’epoca o anacronismi di sorta.
L’album della Varèse presenta un selezione più che soddisfacente delle musiche originali, ma merita menzione anche il brano conclusivo (l’unico non composto da Blanchard, seppur da lui orchestrato) “Chaiyya Chaiyya Bollywood Joint”, pervaso dalle trascinanti ritmiche indiane della nuova generazione di musicisti Bollywood (l’autore è il caposcuola A.R. Rahman). Se non altro perché in America sta rappresentando il vero motivo di traino del cd.


NOTIZIE
Sound anni '70 per Spike
Un tocco anni '70 nelle musiche di Blanchard per l'ultimo thriller di Spike Lee "Inside Man"

12.04.2007 - Autore: Giuliano Tomassacci