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Lady Vendetta

Park Chan-wook chiude il cerchio della trilogia sulla vendetta. Dopo Sympathy for Mr. Vengeance e Old Boy regala un altro capolavoro fatto di inquadrature magistrali, in bilico tra le vette del melodramma e le profondità dell'horror

Park Chan-Wook

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti
Geum-ja sale sul palcoscenico del crimine già a vent’anni quando diviene famosa per l’accusa di aver rapito e ucciso un bambino. Dopo tredici anni in prigione da detenuta modello, viene scarcerata e le sue prime parole da donna libera sono Vai a farti fottere, pronunciate nel bel mezzo di un coro natalizio intonato da un gruppetto in costume da Babbo Natale. La rabbia repressa inizia a esplodere, ma come nelle altre tragedie di Park Chan-Wook, lo fa attraverso un lucido filtro razionale. Già in prigione progettava l’atroce vendetta nei confronti dell’ex insegnante, il vero serial-killer.

La trilogia sulla vendetta. Con "Sympathy for lady Vengeance" Park Chan-wook chiude il cerchio della trilogia sulla vendetta. I precedenti episodi - "Sympathy for Mr. Vengeance"(2002) e "Old Boy" (2003) - avevano conclamato la fama del regista coreano rivelatosi con il precedente Joint Security Area. Sofferenza, punizione per una pena non commessa, vendetta e tentativo di redenzione. Non una vendetta catartica, ma qualcosa di molto meno greco e più orientale. Stavolta è la diva Lee Young-ae ha intraprendere il percorso nero.  

Il coraggio di Chan-wook. Il cinema di Park Chan-wook è il più impavido che ci sia. Non teme nulla il coreano di "Old Boy". Né le vette del melodramma, né le profondità orrorifiche. Né il grottesco, né il surreale. Tutto insieme, senza mai dar la sensazione che stia cambiando mantello espressivo al film. Ci deve essere una magia rara, nascosta da qualche parte in tutte le inquadrature, che le danno uno stesso impasto emotivo. Ma cos’è? Dov’è? Forse nel senso geometrico di quelle linee di fuga che non concedono scampo ai personaggi.

Il senso dell’inquadratura. Non c’è un solo dettaglio lasciato al caso nel cinema di Park. Le linee di fuga rigorose e studiate all’ossesso di ogni singola inquadratura. Il rapporto meticoloso con tutti gli aspetti del mezzo. La fotografia, i colori, la recitazione, lo spazio e il tempo. Guardare un suo film è definitivamente un’ubriacatura di inquadrature che paiono quadri. I suoi tipici interni ripresi dall’alto, con tutto il senso di oppressione e di immanenza del destino che impongono. I violini per nulla timidi che fanno sembrare ogni scena la scena chiave. L’impresa è quella di raggiungere prima di tutto un tale conivolgimento emotivo che impedisce di considerare il suo cinema semplicemente estetico.   

La sequenza finale. Dopo lungo peregrinare Geum-ja azzanna finalmente le sue grinfie sul vero serial killer dei bambini. A quel punto riunisce i genitori delle vittime e gli mostra i video delle uccisioni per accendere il loro desiderio di vendetta. Il gruppo di genitori pare un’assemblea scolastica, solo che discute se vendicarsi in gruppo o privatamente del serial-killer, con un’ascia o un coltello. Alla fine, uno alla volta, daranno sfogo al proprio odio, in una memorabile sequenza quasi monocronamtica. La neve finta che giunge a ripulire tutto è l’emblema del cinema costruito del coreano. Volutamente finta. Ma una finzione che riesce a dare emozioni più vere di molti realismi.

La battuta.  Esistono rapimenti buoni e rapimenti cattivi. Sono buoni quando i familiari sono ricchi e il riscatto non è un problema economico per loro: d’altronde la riunificazione carica di emozioni positive i familiari.