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La samaritana

Con i film di Kim Ki-Duk non hai più bisogno di annusare il sughero del tappo per sapere come saranno. Si sa già che non mostrerà il dolore ma ne farà vedere solo una sottile rifrazione

LA SAMARITANA

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti
Con i film di Kim Ki-Duk non hai più bisogno di annusare il sughero del tappo per sapere come saranno. Si sa già che non mostrerà il dolore ma ne farà vedere solo una sottile rifrazione. Fingerà di non notare il tormento interiore dei suoi personaggi. Fingerà di abbandonarli a se stessi, rendendo la loro sofferenza ancora più sconvolgente. Mostrerà le conseguenze dopo l’accadimento, più che l’accadimento. Escluderà le scene di sesso e di violenza. Rifuggirà sensazionalismi. Mostrerà il sesso e la violenza attraverso le sfumature del prima e del dopo. Volgerà lo sguardo altrove al momento dell’atto. Nel suo decimo film (cronologicamente precedente a Ferro3), con una costruzione semplice ma efficace racconta il tema della perdita dell’innocenza, la colpa e la redenzione. Compone l’inquadratura ricreando la tensione pittorica del miglior Kitano e finisce, in definitiva, per strappare via un brandello di poesia e portarcelo sullo schermo.

Vuole una leggenda buddista che c’era una volta una prostituta di nome Vasumitra, e ogni uomo che si abbandonasse al piacere con lei decidesse di abbracciare il buddismo. Due amiche liceali intraprendono il loro viaggio iniziatico nel mondo della prostituzione. Una delle due prende il nome di Vasumitra alla ricerca dell’intimo scambio umano attraverso il sesso. L’altra (Yeo-jin) la trucca, fa le telefonate e si occupa dei soldi: vogliono comprarsi un biglietto aereo per l’Europa. Dal gioco al dramma: basta un salto dalla finestra per scappare dai poliziotti. Yeo-Jin decide di rivedere tutti gli uomini con cui era stata Vasumitra, ma invece di farsi pagare, gli restituisce i soldi; in una specie di percorso di purificazione. Jae-yeong era stato un incantesimo sessuale per qualche uomo, Yeo-Jin è la samaritana che restituisce i danari ai peccatori. Qui che entra in scena il padre di Yeo-Jin. Scopre la figlia. Ecco il dramma di un padre. Prova a redimere gli uomini che vanno con sua figlia a suon di schiaffoni. A lei non dice nulla. Si chiude in un sofferto silenzio e la osserva. E in un viaggio che avrà un sapore catartico cercherà di redimerla, mentre lui sprofonda.

Kim Ki-Duk non analizza le motivazioni dei personaggi. Non approfondisce significanti sociali o psicologici. I personaggi agiscono ad un livello simbolico più che drammatico, in una serie di scene concettualmente concise. Tutto il film dalla seconda metà sembra costruito per andare verso un climax - il confronto tra padre e figlia sulla scoperta della sua prostituzione - invece lentamente trova un suo percorso emotivo fatto di sottili metafore dimenticandosi dello svelamento promesso. Tutto finirà in una lezione di guida. Scena tra l’altro meravigliosa.

Qualcuno avrà qualche prurito e fastidio per il carattere a volte troppo emblematico del cinema di Kim Ki-Duk (sì, a volte cerca in modo troppo spudorato di tracciare una parabola a suo modo perfetta). Qualcun’altro amerà riflettere e stendersi sull’ennesima parabola del ragazzo coreano.

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