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Edison city

Morgan Freeman, Kevin Spacey e Justin Timberlake in un film polizesco che convince poco

Edison

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Id, Usa, 2005;
Regia di Edward J. Burke;
con Morgan Freeman, LL Cool J, Kevin Spacey e Justin Timberlake

Dopo anni di criminalità e soprusi, ad Edison City sono tornati ordine e tranquillità. Molto merito è della F.R.A.T., una squadra speciale della polizia che col passare del tempo ha però ceduto alla corruzione ed alla cupidigia. I due esponenti più valorosi del team sono il pazzoide e violento Lazerov (Dyaln McDermott) e Deed (LL Cool J), che però inizia a nutrire seri dubbi sui metodi e sull’etica del suo lavoro. Quando i due compiono l’ennesima azione illegale, di cui un ragazzo innocente fa le spese, sulla F.R.A.T. iniziano ad interessarsi un gruppo di persone: su tutti il reporter Pollack (Justin Timberlake), che per primo fiuta il marcio che si nasconde dietro la facciata della polizia. Ostacolato all’inizio dal suo redattore Ashford (Morgan Freeman), il giornalista fornirà le prove per convincere il suo capo ad aiutarlo, coinvolgendo anche un altro poliziotto, il veterano Wallace (Kevin Spacey). Appena scoperto che qualcuno sta ficcando il naso nei suoi affari, il capo della F.R.A.T. Tillman (John Heard) sguinzaglia i più violenti poliziotti per impedire le indagini.

Prima, fondamentale precisazione per parlare di “Edison City”: vogliamo sperare che questa pellicola non rappresenti in alcun modo lo stato del cinema di denuncia socio-politica americano, anche quello meno legato alle Major, perché altrimenti oltre oceano sarebbero messi davvero male, forse addirittura peggio che da noi. La stupidità e la sciattezza con cui è stato assemblato un prodotto come questo non può che ledere tutti coloro che vi hanno partecipato: a parte lo sconosciuto regista, l’intero cast si attori più o meno affermati andrebbe additato a ludibrio per aver accettato di prendere parte a tale insensatezza. Forse l’unico a salvarsi è il gigionissimo e divertito Morgan Freeman, non fosse altro per il fatto che in una scena che ha dell’assurdo dimostra di essere un ottimo ballerino alla sua non più giovane età.

Ma qual è il senso di una pellicola del genere? Denunciare uno stato di totalitarismo strisciante nella società e negli organi ufficiali statunitensi? La cosa non è già abbastanza evidente senza che tale fatto si tenti di avvalorarlo attraverso un lungometraggio scontato ed imbarazzante? Il dubbio sul perché “Edison City” sia dovuto uscire dai confini  - speriamo ristretti – del suo mercato interno, per approdare anche nelle nostre sale, probabilmente ci occuperà la mente per settimane. E, soprattutto, un’altra domanda ci preme sottoporre all’attenzione del lettore: perché questa pellicola finirà nelle nostre sale quando invece un’altra opera di denuncia come “Silver City” (id., 2004) di John Sayles, che possiede ben altro spessore drammatico e forza d’impatto, è caduta nel dimenticatoio dopo la sola visione allo scorso Torino Film Festival? Misteri della distribuzione italiana…