NOTIZIE

Broken flowers

Il mondo è sempre quello dipinto con mano arguta e dolcemente dolente da Jarmusch. Quell'America, che ama in modo così eccentrico e personale, è raccontata con la sua classica vena idiosincratica ed episodica, tra ambiguità esistenziali e narrative

BROKEN FLOWERS

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti
Mentre la sua donna (Julie Delpy) lo molla, Don (Bill Murray) riceve una lettera anonima, in cui una misteriosa ex gli fa sapere di essere padre da un paio di decenni. Reagisce come un Buddha tragicomico che assiso sul divano si guarda in Tv La vita privata di Don Juan (1934). Non una sequenza qualsiasi, ma quella in cui Douglas Fairbanks finge il suo funerale per spiare le lacrime delle sue ex e rivederle tutte insieme. La cosa in fondo ispira Don che si produce in una lista delle possibili madri. Il vicino di casa, pieno di figli e soprattutto amante dei gialli, è il Colombo della situazione: gli scopre l’America dove son finite le sue ex, e pedina gli indizi del suo passato. Si muove con l’astuzia del detective e confeziona per Don il piano perfetto per un tour tra le ex amanti.

Con contegno mascolino e fiori rosa a braccio, Don inizia un romantico resumè del suo passato da play-boy. Attraversa imprecisate e anonime zone del paese, pennellate con il famoso stile bizzarro di Jarmusch. Trova la vedova di un pilota NASCAR (Sharon Stone) con una figlia lolitesca, poi una donna austera dal lavoro e la vita prefabbricati (Frances Conroy, splendida: la Ruth Fisher di Six Feet Under), poi una che parla con gli animali (Jessica Lange) e infine una fanatica motociclista (Tilda Swinton). Ne esce un quartetto di veri e propri set comici. Non irresistibili, a dire al vero, non propriamente originali certo, ma capaci di fungere da efficaci tessere del puzzle complessivo, e di intrattenere, soprattutto per il mostruoso tocco comico di Murray.

Il Jarmusch touch. Il mondo è sempre quello dipinto con mano arguta e dolcemente dolente da Jarmusch. Quell’America che ama in modo così eccentrico e personale. Filmaker minimalista a modo suo, lavora qui con la sua classica vena idiosincratica ed episodica, tra ambiguità esistenziali e narrative: Don trova il figlio? Don migliora dopo il percorso nel suo passato sentimentale? Se volete i plot preconfezionati e i rigidi archi narrativi di sviluppo dei personaggi, cercate altrove. Chi aveva teso l’orecchio per cercare di sentire quello che Bill Murray sussurrava a Scarlett Johansson nell’epilogo di Lost in Translation, resterà qui ancora più appeso da un finale un po’ criptico. Ma Jarmusch, lasciando intuire il mittente della lettera, concederà alla fine un respiro ancora più ampio al percorso a ritroso di Don sulle proprie tracce sentimentali.

La faccia di Bill Murray. Il tutto funziona perché ruota attorno alla faccia enciclopedica di Bill Murray. Un guizzo dell’occhio. Un sottile movimento della bocca. Una vaga idea di sorriso. Un ciglio che pare muoversi. Merita applausi solo per il modo in cui guarda accorato verso un piatto di carote. Dopo Lost in Translation e i lavori con Wes Anderson (Rushmore e poi The Life Aquatic), Murray ci presenta qui la sua faccia da poker. In realtà sta giocando a tressette, e il pubblico è il suo compagno: per lui, e solo per lui, muove le mille righe della sua faccia per far capire cosa ha in mano, o meglio dentro. Nessun altro sullo schermo se ne accorge. E’ tutto un vasto assortimento di sottili smorfie facciali. Una performance sublime, degna del Peter Sellers di Being There, con ogni fossetta e linea della sua faccia che appaiono e scompaiono come un’incisione su una lastra litografica. Con precisione chirurgica Bill Murray crea il perfetto ritratto della mezza età melanconica. Un uomo, in fondo, che cerca di virare dalla totale passività ad un vago e incerto tentativo di azione.