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Ancora e sempre Hair!

Il fascino di "Hair" sul grande schermo è proprio questo: il suo essere datato, inattuale, ingenuo. Quasi completamente ballato e cantato con una densità estenuante e avvolgente, zeppo di ogni luogo comune possibile su figli dei fiori, esercito, società...

hair

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Scritto dal trio Gerome Ragni, James Rado e Galt MacDermont, e rappresentato per la prima volta sul palcoscenico americano nel 1967, il musical più hippie di tutti i tempi era la testimonianza ingenua ed entusiasta di un\'epoca precisa. Quando nel 1979 Milos Forman, già autore del grande “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (One flew over the cuckoo’s nest, 1975) ne fece un musical per il cinema, la stagione del \"flower power\" si era ampiamente esaurita ed i giorni di pace, amore e musica si erano persi nel vortice di guerra, cinismo e droga.   Il campagnolo Claude Bukowski (John Savage), che va a visitare New York prima di partire per il Vietnam, e il fricchettone George Berger (Threat Williams) che lo incita in tutti i modi a restare per vivere in pieno la sua vita e l\'amore, facevano ormai sorridere, probabilmente, anche chi hippie lo era stato davvero. Anche chi aveva amato il musical nella sua versione teatrale, tanto da farlo diventare un vero e proprio manifesto della contestazione e innalzarne la splendida colonna sonora allo status di culto.   Ma è proprio qui il fascino di \"Hair\" sul grande schermo: il suo essere datato, inattuale, ingenuo. Quasi completamente ballato e cantato con una densità estenuante e avvolgente, zeppo di ogni luogo comune possibile su figli dei fiori, esercito, società, \"Hair\" sembrava, alla fine degli anni \'70 come oggi, un affettuoso gioco esplosivo sul passato recente. Ma l\'ironia di cui \"Hair\" si serve per completare questo gioco manca completamente di nettezza: non si capisce mai dove finisce la riflessione affettuosa e sopra le righe nei confronti degli anni sessanta e dove invece comincia lo sberleffo, oppure quanto i realizzatori del musical cinematografico fossero consapevoli di creare un’ opera tanto teneramente inattuale.   A nostro avviso i grandi musical che negli anni ’70 hanno preceduto la fatica di Forman, regista sempre e comunque capace di fornire un prodotto intelligente ed esteticamente coinvolgente, hanno avuto a loro vantaggio l’inserimento in un contesto socio-politico più omogeneo ed in sintonia con la loro stessa natura; pensiamo ad esempio al “Jesus Christ Superstar” (id., 1973) di Jewison, al “Tommy” (id., 1975) di Russell, e soprattutto al manifesto anarchico-liberatorio di “The rocky horror picture show” (id., 1975) di Sharman: tutti questi capolavori, che hanno ribaltato in un certo senso la storia del musical hollywoodiano e non, erano stati ideati e realizzati in un periodo assolutamente adatto e capace di decretarne il successo; lo stesso probabilmente non si può dire per “Hair”, oggetto senza dubbio affascinante ma fuori tempo.   \"Hair\" è il canto del cigno dello spirito creativo che il film stesso rievoca: la fantasia al potere senza freni, anche negli eccessi, senza cinismi, anche nel ridicolo, purché completamente immersa in uno slancio di affetto verso ciò che viene raccontato. Uno slancio che si potrebbe anche dire amore puro. Che, in tempi dominati da paranoie minacciose e paralizzanti, non è davvero poco...  
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