Anche i meno attenti e rigorosi aficionados dell’opera spielberghiana avranno avvertito, reduci dall’ultima fatica del regista statuinitense ancora una volta non del tutto convincente sul versante narrativo, un’assenza-presenza inedita al tessuto filmico dell’autore, una familiare sensazione definente il racconto che mai però si concretizza, si impone o si delinea al di fuori del suo più specifico ruolo cinematografico. Come mai prima era successo. Un impressione di forte discrepanza tra quest’ultimo lungometraggio e la quasi totalità dei precedenti lavori spielberghiani.
E’ il mirato contributo musicale di John Williams, che stavolta sfugge ma condiziona, tratteggia ma non invade, si defila colpendo però le corde giuste. E’ uno dei punti di forza del lungometraggio, sancente un ritorno all’essenzialità di scoring che nelle ultime stagioni era sfuggito di mano alla coppia hollywoodiana. Una dovizia quella di Williams che asseconda il film senza sbavature di sorta, lavorando di fino sulle cesellature emotive e sulle atmosfere sonore echeggianti deliri di massa, paesaggi alieni siderali, diluendo fino alla sublimazione il respiro apocalittico tangibile che attraversa l’opera. In questo senso, il compositore ha messo mano ad una tavolozza scurissima e poco accomodante, fregiando la pellicola di una alone sinfonico aspro di dissonanze, una partitura elargente numerosi pentagrammi di rarefatta inquietudine. La permanente rinuncia ad appoggi melodici concreti (anche le pagine più “umane”, come “Ray And Rachel”, risentono di un’urgenza e di un’intenzione prettamente atonali) è la principale responsabile di quello scarto evidente tra il lirismo, più o meno latente, delle passate esperienze comuni dei due cineasti e questa nuova esperienza filmica. Sicuramente la mancanza di un concreto appiglio melodico renderà ai più meno attraente la colonna sonora sul piano autonomo (e infatti il disco Decca, nonostante il ragionato dosaggio di compilazione, entra di diritto nella lista degli album più difficili e complessi dell’autore americano) ma nel suo riferirsi alle immagini lo score non solo da prova di grande efficacia e misura ma inoltre attesta, ancora una volta, una coerenza autoriale del comporre williamsiano: gli anfratti “scomodi” dell’orchestra avevano infatti già commentato i primi passi sulla terra di un E.T. ancora sconosciuto ad Elliot e quindi poco rassicurante, così come le scritture eteree avevano dipinto lo sfondo musicale degli alieni nel finale di A.I., per non parlare poi delle soluzioni ben più drastiche applicate nel capostipite Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo. Ma in La Guerra Dei Mondi le presenze extraterrestri non celano amicizia fraterna, ne bonaria intelligenza o mediatica salvezza. Williams dunque non scende a compromessi e allerta lo spettatore fino alla fine, perché non c’è pace o celato positivismo degli alieni fino alla loro estinzione, fino a quell’accordo maggiore che conclude “The Reunion”.
Anche senza raggiungere gli standard storici della partnership, War Of The Worlds è insomma un assoluto della collaborazione Williams-Spielberg (nel bene e nel male), e non solo del confronto con l’ignoto: le serrate sequenze ritmiche che punteggiano lo score diventano la stilizzazione musicale di quella ‘fuga’ incessante che da Sugarland Express rappresenta forse la tematica più spontanea del cinema spielberghiano.
John Williams
War Of The Worlds
(Decca Records 988 1413)


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Un mirato contributo musicale
Pentagrammi dissonanti per partitura extraterrestre: Williams di nuovo a confronto con gli alieni di Spielberg

12.04.2007 - Autore: Giuliano Tomassacci