La sorpresa di Michael Moore. Il regista di Bowling a Columbine e Fahrenheit 9/11 ha presentato allo IFC Center di New York un film di cui, fino a poche ore fa, non si sospettava l'esistenza. Michael Moore in TrumpLand è in realtà la ripresa dal vivo di uno degli show da lui tenuti in Ohio nelle ultime settimane, durante i quali ha cercato di “incontrare a metà strada” l'elettorato di Donald Trump in uno degli stati più conservatori del Midwest americano. Il film dura solamente 73 minuti, è stato completato in tempo record (Moore l'ha girato 12 giorni fa) ed è per metà una riflessione sulle ragioni del successo di Trump e per l'altra metà una lettera d'amore a Hillary Clinton.
La performance è stata ripresa nel Murphy Theatre di Wilmington, Ohio, nella contea di Clinton, dove ci sono 25mila votanti registrati e solamente 500 di questi sono democratici. Da qui il titolo del film: più che alludere al candidato repubblicano, “TrumpLand” indica esattamente i luoghi visitati da Moore, la terra di Trump.
“Con un mix di comicità stand-up, analisi politica e, infine, un tributo a tutto gas a Hillary Clinton, Michael Moore in TrumpLand guadagna punti per il perfetto tempismo e il suo ammirevole tentativo di alzare il livello della conversazione in questa elezione fortemente polarizzante”, scrive Frank Scheck su The Hollywood Reporter. Eppure “questa lezione cinematografica difficilmente farà cambiare idea ai più”. “La performance inizia in maniera spiritosa – prosegue Scheck – Ma [Moore] diventa serissimo quando si lancia in un appassionato peana sugli sforzi di Hillary per la riforma della sanità”. “Potrebbe essere il nostro Papa Francesco”, afferma Moore guardando dritto nella macchina da presa.
“Michael Moore in TrumpLand parte con una furia esplosiva ma finisce per lanciare solamente una granata che resta inesplosa – afferma Owen Gleiberman di Variety – Bisogna dare credito a Moore: non fa la paternale, ma purtroppo seppellisce la sua analisi su Trump in una lettera d'amore politica a Hillary”. La sua analisi si limita, stando a Gleiberman, a una riflessione sulla lenta estinzione del maschio bianco oltre i 35 anni, che ormai rappresenta appena il 19% della popolazione. La forza di “un bianco arrabbiato” come Donald Trump sta, appunto, nel rappresentare “una promessa: riporteremo tutto indietro a come era prima”. Purtroppo, “Una volta che Moore ha finito di parlare del bianco arrabbiato, ha finito anche di parlare di Donald Trump. Dopo mezz'ora (al massimo), devia sull'argomento Hillary Clinton” e lì il film diventa “la storia di una conversione religiosa” in cui Moore arriva a suggerire che Hillary sia “un rivoluzionario infilatosi nella politica mainstream attraverso un cavallo di Troia”, pronto a cambiare le cose per davvero. Il cinico si fa ottimista, ma il film perde così il suo slancio caustico e non fa che reiterare l'opinione dello stesso Moore, “ennesima eco del privilegio del maschio bianco”.
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“Con un mix di comicità stand-up, analisi politica e, infine, un tributo a tutto gas a Hillary Clinton, Michael Moore in TrumpLand guadagna punti per il perfetto tempismo e il suo ammirevole tentativo di alzare il livello della conversazione in questa elezione fortemente polarizzante”, scrive Frank Scheck su The Hollywood Reporter. Eppure “questa lezione cinematografica difficilmente farà cambiare idea ai più”. “La performance inizia in maniera spiritosa – prosegue Scheck – Ma [Moore] diventa serissimo quando si lancia in un appassionato peana sugli sforzi di Hillary per la riforma della sanità”. “Potrebbe essere il nostro Papa Francesco”, afferma Moore guardando dritto nella macchina da presa.
“Michael Moore in TrumpLand parte con una furia esplosiva ma finisce per lanciare solamente una granata che resta inesplosa – afferma Owen Gleiberman di Variety – Bisogna dare credito a Moore: non fa la paternale, ma purtroppo seppellisce la sua analisi su Trump in una lettera d'amore politica a Hillary”. La sua analisi si limita, stando a Gleiberman, a una riflessione sulla lenta estinzione del maschio bianco oltre i 35 anni, che ormai rappresenta appena il 19% della popolazione. La forza di “un bianco arrabbiato” come Donald Trump sta, appunto, nel rappresentare “una promessa: riporteremo tutto indietro a come era prima”. Purtroppo, “Una volta che Moore ha finito di parlare del bianco arrabbiato, ha finito anche di parlare di Donald Trump. Dopo mezz'ora (al massimo), devia sull'argomento Hillary Clinton” e lì il film diventa “la storia di una conversione religiosa” in cui Moore arriva a suggerire che Hillary sia “un rivoluzionario infilatosi nella politica mainstream attraverso un cavallo di Troia”, pronto a cambiare le cose per davvero. Il cinico si fa ottimista, ma il film perde così il suo slancio caustico e non fa che reiterare l'opinione dello stesso Moore, “ennesima eco del privilegio del maschio bianco”.
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