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L'Onorato Morricone

Dopo cinque nomination alla statuetta d'oro, l'Academy ha finalmente deciso di tributare l'Honorary Award a Ennio Morricone

Ennio Morricone

12.04.2007 - Autore: Giuliano Tomassacci
    Ad ogni nomination non concretizzata – anche fosse la rappresentante di un componimento non particolarmente eccezionale del Maestro romano – l’amarezza generale, non solo della comunità cine-musicale internazionale, ma anche quella del grande pubblico sempre in sintonia con l’enfasi musicale del musicista, confermava la sensazione di un’occasione mancata, di un torto perpetrato incautamente ai danni di una personalità da tempo meritoria, reclamante in prima persona il riconoscimento accademico nell’establishment hollywoodiano.

   

E di sfide Morricone ne ha ingaggiate continuamente. Dapprima, durante gli studi al conservatorio di Santa Cecilia, per puro mestiere di vivere, dovendo rifugiarsi “clandestinamente” nel mondo dell’arrangiamento leggero per sbancare il lunario. Poi, diplomatosi in composizione, con la sua stessa prospettiva professionale: il desiderio endemico di imporsi nel panorama classico contemporaneo e la necessità concreta di cedere alle sirene cinematografiche, ben più redditizie del podio da palcoscenico seppur non meno stimolanti – e anzi più facilitanti – l’innata operosità sperimentale, l’irrefrenabile facilità all’avanguardismo. Una sfida – quella tra musica assoluta e applicata – che con il tempo si fa compresso interno. L’eccellenza raggiunta dall’autore nella disciplina che gli si è imposta come principale miete collaborazioni degne di matrimoni celebrati in paradiso: Leone, Pasolini, Petri, Bertolucci, i Taviani.

La parabola non accenna a calare in prossimità della stagione dei generi italiani, perché alla base c’è ancora un compromesso: pur di garantire una dignità sonora al ricco vivaio dell’exploitation nazionale Morricone è disposto – e in più di un’occasione vi si adopera – ad affiliarsi a prodotti di basso profilo, quando non di basso livello. Il lounge e l’easy-listening, d’altronde, offrono possibilità non indifferenti all’estremizzazione del timbro vocale, all’uso strumentistico del verso gutturale. Fino all’apertura internazionale, sancita dal sequel de L’Esorcista, diretto da Boorman. E sotto l’opera dei nomi stranieri che seguiranno (da Malick a Joffé, da De Palma ad Almodóvar, da Beatty a Stone fino a Nichols) il laboratorio morriconiano non cambia, intensificando piuttosto quella tensione compositiva tra palcoscenico e musica di commento che arriva ad approcci estremi, disinvolte scritture attraversate da una propensione armonica modernissima. Un viaggio nello spazio, in Mission to Mars, diventa scenario per una partitura agli antipodi del linguaggio fantascientifico; la metafora horror di un licantropo ribelle intrappolato nell’ipocrisia cittadina, richiama nella partitura di Wolf un romanticismo atonale.

   

L’Oscar alla carriera di cui sarà insignito il 25 Febbraio a Los Angeles, “per i magnifici e sfaccettati contributi all’arte della musica da film”, lo colloca al fianco di Alex North – il primo musicista specializzato meritorio di un simile premio (anch’egli innovatore spesso sottovalutato) e scatenerà letture diversificate: riparatorio, per il tempo perduto e l’evidente difficoltà futura di premiare un suo score ora che il musicista ha interrotto le collaborazioni americane; ritardatario, dovuto, addirittura risarcente (nel 1987, candidato per Mission, gli fu eclatantemente soffiato dal revival jazz curato da Herbie Hancock per Round Midnight e ancora prima la nomination per C’era una volta in America non arrivò causa défaillance della produzione, che dimenticò di presentarlo tra i possibili candidati).


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