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Il gigante della foresta

Andrea Ghiurghi. Campione olimpionico di beach volley, biologo e prezioso interlocutore di organizzazioni umanitarie, Ghiurghi ha trascorso molto tempo tra le foreste cecentroafricane. Ha lasciato tuttoper andare a vivere con i pigmei, a studiarne i sistemi di caccia e alimentazione.

Andrea Ghiurghi

25.10.2001 - Autore: Federico Geremei
Turismo.it ha incontrato Andrea Ghiurghi ad una serata organizzata da National Geographic Italia insieme ad Amref (Fondazione Africana per la Medicina e la Ricerca, rigorosamente no-profit). Campione olimpionico di beach volley, biologo e prezioso interlocutore di organizzazioni umanitarie, Ghiurghi ha trascorso molto tempo tra le foreste centroafricane. Ha lasciato a casa calzoncini e occhiali da sole per andare a vivere con i pigmei, a studiarne i sistemi di caccia e alimentazione. Dalla sabbia alla terra della foresta africana, per molti mesi. Notizie dei suoi studi sul campo sono giunte al National Geographic che ha deciso di interessarsi alle ricerche di Ghiurghi e il risultato è un documentario su questo gigante della foresta. Luscita prevista è nella primavera del 2002.   Raccontaci come è nato questo progetto La storia è questa: io lavoro da tempo in Africa, mi occupo di progetti di conservazione.   Per qualche Organizzazione Non Governativa? No, in questo caso no. È uniniziativa della Comunità Europea, uno studio sui sistemi di caccia in foresta. Sono stato per alcuni mesi nella Repubblica Centroafricana, nel sud-ovest, in una comunità che caccia per vivere e sopravvivere. In base a questo studio ora si sta lanciando un progetto di gestione e utilizzo razionale della risorsa selvaggina. E io sto per ritornare per continuare le ricerche, sono in partenza proprio in questi giorni.   Ma non vai solo Infatti. Una troupe del National Geographic sarà con me per un mese. Mi seguirà nelle mie attività e poi se ne farà un documentario che descrive la vita di questi villaggi e i problemi che lì esistono. È ormai unarea al confine tra la biologia e lantropologia: studiare la caccia significa studiare gli animali e gli uomini che vivono predandoli.   Quando sei andato lì la prima volta? Io ho preso parte a questo progetto due anni fa, tramite un professore universitario di Roma. Ero già stato da quelle parti, in Uganda, per la mia tesi.   Dove? Nel parco Queen Elizabeth, sul Lago Edoardo. Anche allora gli studi riguardavano il rapporto conflittuale tra uomo e grandi mammiferi.   Che etnie vivono laggiù? Sia pigmei che bantu.   Come convivono? I pigmei sono un popolo stupendo, davvero. Purtroppo sono ormai completamente ghettizzati dai neri bantu. Servi, nientaltro che servi: fanno tutto quello che viene loro imposto.   I paria della foresta Sì, la casta infima. E pensare che sono loro il vero popolo della foresta. Se potessero, i bantu raderebbero tutto al suolo, una bella spianata di terra invece degli alberi. I pigmei invece sembra proprio che amino la foresta, non conoscono un mondo che non sia verde. Sarebbe fantastico se si potesse parlare con il capo pigmeo del villaggio per prendere decisioni. Ma non si può, si creerebbe un casino incredibile.   A proposito di parlare, come comunichi con i pigmei? Innanzitutto i nomi degli animali, la cosa più importante: quelli li ho imparati rigorosamente nella loro lingua. Per il resto, in francese si riesce a farsi intendere in maniera soddisfacente. Io lavoravo con un ragazzo che era in grado di capire me e loro, questo ha reso le cose sicuramente più semplici.   Come ti sei trovato nella foresta? Limpatto con i cibi e la cucina di quei posti è stato abbastanza impegnativo, direi. Il fatto è che io studiavo le cose che mangiavo. O viceversa. Manioca e antilope era il piatto forte.   Ti trasferiresti definitivamente laggiù? Per periodi anche lunghi potrei anche starci, ma non a vita, questo no.   E il resto dellAfrica lo conosci? Ho girato molto in Africa ma prima o poi farò un viaggio tra le montagne del Sahara, quelle davvero mi piacerebbe vederle, il Tibesti in particolare. E poi il delta dellOkavango, in Botswana.   Esiste il Mal dAfrica? Una volta secondo me esisteva: andare in Africa significava ritrovare ritmi e realtà primordiali, una specie di archetipo. LAfrica rappresentava un mondo a sé in cui uomini, animali e piante vivevano alla pari. Ora non è più così. Io, nel mio piccolo, il mio mal dAfrica ce lho perché i posti in cui vado sono tra i pochi rimasti abbastanza selvaggi. Una dimensione di vita diretta, è difficile spiegarlo, ma lì non ci sono mediazioni e sovrastrutture. Lì si beve al fiume, qui apri il rubinetto e non hai idea da dove venga lacqua.   Lintervista continua nel box in alto a destra...  
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