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Il fascino del male: al cinema e su Netflix la storia di Ted Bundy, il primo serial killer

Con il film Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile e la serie Conversazioni con un killer, Joe Berlinger esamina uno dei più feroci assassini di tutti i tempi

Ted Bundy, Zac Efron

28.01.2019 - Autore: Marco Triolo
Che cosa ci affascina tanto dei serial killer? È difficile trovare una risposta precisa senza scadere nel banale e nel retorico. Ma nel caso di Ted Bundy, uno dei più celebri serial killer di tutti i tempi, è molto più facile rispondere. 
 
Ciò che ci affascina di Ted Bundy è la sua facciata da bravo ragazzo e il netto contrasto con i crimini “estremamente perfidi, scandalosamente malvagi e vili” di cui si è macchiato. Non solo ha ucciso una trentina di donne per quietare una voce che, secondo lui, parlava nella sua testa e lo costringeva a compiere questi atti di violenza. Ma le ha anche spesso decapitate, ha tenuto le loro teste in casa come ricordo e non ha esitato a lasciarsi andare ad atti di necrofilia. Tutto questo lo ha fatto contando sul suo innato charme, il suo bell'aspetto e i modi da gentiluomo. Nonché una sovrumana abilità da truffatore, che gli permetteva di assumere ogni volta identità diverse per ingannare le sue vittime designate.



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La carriera criminale di Bundy è stata determinante nella creazione del termine “serial killer” e dei moderni metodi di analisi comportamentale a scopi investigativi. Prima di lui non c'era niente di tutto questo: i dipartimenti di polizia delle contee e dei diversi stati non si parlavano tra loro, e proprio in questa zona grigia comunicativa si muoveva abilmente Bundy. Dopo di lui, anche grazie all'evoluzione della tecnologia, sono stati fatti passi enormi per impedire che simili scie di delitti (la sua ha toccato diversi stati americani) non potessero ripetersi.
 
Ted Bundy è tornato ora all'attenzione mediatica grazie a un paio di progetti che si devono a una sola persona, il regista Joe Berlinger. Da un lato la serie Netflix Conversazioni con un killer: Il caso Bundy. Dall'altro il film di finzione Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile, da lui diretto e interpretato da Zac Efron. “Efron è perfetto qui, nella migliore interpretazione della sua carriera finora”, scrive Adam Chitwood su Collider, nei giorni in cui il film è stato presentato al Sundance Film Festival. Per Owen Gleiberman di Variety, Efron è “sorprendentemente bravo: controllato, magnetico, audace, concentrato e sinistramente perfetto”. Grandi complimenti per un attore noto soprattutto per le commedie, ma che da tempo sta cercando di costruirsi una credibile immagine di attore drammatico.

 
Il film si concentra sulla vita “normale” di Bundy ed è raccontato dal punto di vista della sua ragazza Elizabeth Kloepfer (Lily Collins). Ispirandosi al libro da lei scritto, “The Phantom Prince: My Life with Ted Bundy”, Berlinger sceglie coraggiosamente di tenere fuori i dettagli truculenti dei delitti di Bundy per raccontare la sua facciata rispettabile, e il modo in cui il sospetto si infila tra le crepe di un'immagine artificiale costantemente traballante. È un'ottima idea per descrivere Bundy, uno che fino all'ultimo si è sempre proclamato innocente, uno talmente bravo a risultare simpatico a tutti da convincere molti suoi conoscenti di non aver commesso quei delitti così atroci. Uno con così tanto fascino da avere delle vere e proprie fan, nonostante fosse accusato di aver ucciso brutalmente trenta donne.

Questo aspetto è esplorato molto bene dalla serie true crime di Netflix, creata sempre da Berlinger. Il regista viene dai documentari e qui è nel suo ambiente naturale. Conversazioni con un killer: Il caso Bundy è costituito da quattro episodi di un'ora circa, che esaminano le tappe della carriera del serial killer, lasciando parlare Bundy stesso grazie a una serie di preziose registrazioni fornite dal giornalista Stephen Michaud. Dal 1974 al 1978, Bundy commise innumerevoli delitti, fuggendo ben due volte di prigione e vivendo per un periodo come latitante in Florida, senza mai smettere di uccidere. La serie esamina in dettaglio le difficoltà delle forze dell'ordine di coordinarsi per fare fronte comune, e l'abilità di Bundy di muoversi nel mezzo di questo caos.



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È interessante anche come Berlinger scelga di non infrangere mai il ragionevole dubbio sull'innocenza di Bundy. Le prove a suo carico erano moltissime, ma quella che ha spostato la bilancia del processo a suo sfavore oggi non sarebbe neppure accettata in tribunale. È una riflessione pungente sul sistema legale che si applica in entrambi i sensi: da un lato, siamo sicuri che Bundy sia colpevole, il suo comportamento è stato esaminato, la sua psicopatia diagnosticata. Non poteva essere innocente. Dall'altro, però, quante persone innocenti sono state vittime di coincidenze e prove circostanziali ritenute schiaccianti?
 
Il caso Bundy è anche un esercizio di empatia, la stessa che l'assassino non era in grado di provare per le sue vittime. La palla viene passata a noi, specialmente negli ultimi minuti in cui, rinchiuso nel braccio della morte, Bundy attende l'esecuzione. Che cosa ci rende umani? Che cosa fa di noi dei membri positivi di una società? E siamo meglio di un serial killer quando invochiamo la pena di morte nei confronti di un nostro simile, ridendo ed esultando mentre una persona viene percorsa da una scarica elettrica letale? La conclusione a cui arriva Berlinger è ancora più cupa delle premesse. Il regista ci mette allo specchio e ci mostra il nostro riflesso. Un riflesso che non è poi tanto diverso dal volto di Ted Bundy.