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GITAI E IL PARADISO

E' il regista delle trilogie, del cerchio che si chiude. Amos Gitai cineasta quasi per volere divino.

Amos Gitai

21.08.2001 - Autore: Beatrice Rutiloni
E\' il regista delle trilogie, del cerchio che si chiude. Il Dio delle piccole cose, l\'occhio puntato su tasselli e microcosmi che messi insieme formano la Storia. Così racconta, da sempre, la sua personale Storia, sua e del popolo d\'Israele, Amos Gitai, cinquantun anni il prossimo 11 ottobre. Cineasta quasi per volere divino. La guerra del Kippur lo ha travolto ventitreenne e studente di architettura a Tel Aviv e gli ha conficcato una lamiera di elicottero nella schiena. La madre gli aveva regalato una super otto, così le prime immagini di Gitai sono quelle girate dall\'elicottero nel 73, prima che venisse colpito da un missile siriano. Ci sono voluti ventisette anni, dieci anni di esilio in Francia per lo scandalo provocato dal primo documentario \"Bayit\", del 1980 e dal successivo \"Yoman Sadeh\", del 1982, poi il 6 ottobre del 2000, giorno della festività di Yom Kippur in Israele, è stata lanciata la \"bomba\" Kippur. Prima c\'era stato \"Kadosh\", sulla condizione femminile nel quartiere ultra ortodosso di Gerusalemme, Mea Sharim, dove gli uomini, dediti alla preghiera e allo studio della Torah , ringraziano Dio ogni giorno per non averli fatti nascere donna. Abbiamo incontrato Gitai, di passaggio a Roma, nella mente i segreti di \"Eden \" il suo terzo film in concorso al prossimo festival di Venezia, assieme a una trilogia (anche questa) di documentari in parte in digitale, fuori concorso, sui mutamenti strutturali, girati più con l\'ottica dell\'architetto che con quella del narratore, sulla trasformazione della baraccopoli di Wadi, un sobborgo di Haifa, città originaria di Gitai, nei decenni dal 1981 ad oggi.   Un film per lei, non è mai un semplice atto di narrazione, può spiegarci l\'intento di Eden?   \"Ho sentito il bisogno di dedicarmi a una trilogia della memoria . Eden è il punto di partenza in tutti i sensi. L\'idea e la pulsione sono di raccontare la Storia d\'Israele dagli anni trenta, dove comincia il film, ad oggi, restando sempre fedele alla visione individuale, l\'ho fatto in Kippur e in Kadosh, per me il modo più efficace di raccontare gli orrori di una guerra non è mettere su un set col sangue finto e i militari in trincea ma la sofferenza delle pareti domestiche, la violenza è roba da pubblicitari, le bombe le lascio ai telegiornali. Eden in ebraico ha un significato di \"paradiso\" nel senso più orientale del termine, di richiamo esotico, irresistibile per Jane (Samantha Morton), la protagonista, che decide di lasciare New York, agli inizi degli anni trenta, affascinata dal fascino caldo d\'Israele. Poi le cose cambiano, il film traccia la prima parte del percorso moderno della mia terra dai fermenti socialisti degli inizi fino al dominio britannico e allo scoppio della guerra e finisce nel 48\".   Dove cominceranno gli altri due?   \"Esatto. Latrun sarà il secondo passo, è la città che fu teatro della battaglia più feroce del 48. Mentre il terzo descriverà lo sviluppo d\'Israele e l\'arrivo delle diverse etnìe, fino ai nostri giorni\".   Torniamo a Eden, il film è tratto da un libro di Arthur Miller, che, tra l\'altro esordisce come attore a ottantatrè anni, com\'è nata la vostra collaborazione?   \"Avevamo entrambi bisogno di memoria, di guardarci indietro e sapere cosa c\'era stato. Il libro di Arthur (\"Homely girl , a life\") mi sembrava molto adatto a una ricerca a ritroso attraverso gli occhi di una ragazza che scopre gradualmente se stessa e la città dove sceglie di vivere, Tel Aviv, con la stessa curiosità e ingenuità. Sono due terreni fertili che mutano quasi di pari passo, è una bella sintonia. Arthur è stato del tutto disponibile, mi ha detto che se volevo trasporre il libro in finzione avrei dovuto fare tutto da solo, distaccarmi il più possibile dal suo lavoro, così mi sono messo a scrivere la sceneggiatura assieme a Maria Josè Sanselme e Nick Villiers e poi gli ho proposto di interpretare il padre di Jane. Dopo sei settimane di riprese ci siamo spostati nel Connecticut da Tel Aviv per Arthur, che nel film è un vecchio mercante d\'arte ebreo che incoraggia la figlia a partire perché non vede futuro in America, o forse perché vuole che almeno la figlia torni alle sue origini\".   E i documentari fuori concorso?   \"Un caso, ho girato l\'ultimo da poco, si tratta di una narrazione attraverso tre decenni ( 1981-91-2001) del sobborgo di Wadi, simbolo dell\'insediamento multiculturale di Haifa. Non credevo che potessero interessare al festival, poi Barbera li ha visti e li ha voluti inserire nella sezione \"Nuovi territori\". Il documentario fa parte della mia personale militanza, trovo che sia l\'arma più efficace di protesta\".   Ha mai girato in Italia?   \"Un documentario, per l\'appunto. Si chiama \"Nel nome del duce\" e racconta la campagna elettorale della Mussolini a Napoli, nel 94. Divertente visto che per fortuna ha vinto Bassolino!\".  
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