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Cuore sacro

Ferzan Ozpetek dopo "La finestra di fronte" racconta la profonda crisi d'identità di una manager ricca e cinica che inizierà a dedicare tutto il suo tempo ai poveri.

Cuore sacro

12.04.2007 - Autore: Claudio Moretti
  Regia di Ferzan Ozpetek con Barbora Bobulova, Lisa Gastoni   Ferzan Ozpetek attinge ad uno dei rari film poco riusciti di Roberto Rossellini. In Europa ’51 Irene, interpretata da una magnifica Ingrid Bergman, in seguito alla drammatica morte del figlio abbandona la vita agiata per dedicarsi ai poveri. Finirà internata in una clinica psichiatrica. Oggi, invece, Irene è Barbora Bobulova e nell’aggiornamento moderno è una manager cinica e di successo. Squalo degli affari inizia la giornata con il tris piscina-pillola-caffè. Il tutto servito e riverito da un paio di badanti. Decide di vendere il palazzo di famiglia per trasformare i ricordi e la memoria in denaro, sotto forma di 30 mini-appartamenti. Tra quelle pareti, in una stanza, ci sono quattro pareti più dense di altre. C’è scritta la memoria di sua madre (morta in circostanze misteriose quando Irene era appena bambina). Sull’intonaco rosso ha scolpito centinaia di frasi in tutte le lingue: mischiava religioni e idiomi per farne il vascello della sua ricerca spirituale.   Nella vita di Irene inizia a palpitare non solo lo spirito della madre, ma anche il suo corpo reincarnato nell’alter-ego di Benny, una ragazzina 13enne che compie piccoli furtarelli per portare da mangiare ai poveri. Tra le due nasce una strana complicità finché, come ogni sceneggiatura contemporanea, un incidente non offre la svolta narrativa del film. La bambina muore investita e Irene inizia la sua conversione. Salta il progetto dei 30 mini-appartamenti e il palazzo antico diventa un centro di accoglienza per i senza-tetto. Lei non si occupa più dell’azienda e inizia a dedicare anima, corpo e denari ai bisognosi. Grande architetto del progetto è un prete. Ne L’esorcista Padre Karras è il prete che decide di ricorrere al vescovo esorcista. Qui Padre Carras esegue invece un esorcismo al contrario, convincendo Irene ad accettare dentro di sé tutte le persone che soffrono, fino a moltiplicare la sua identità. Finita in clinica psichiatrica dice di chiamarsi Sara, Anna Maria, Luisa, Caterina, Antonia, Giovanna…I nomi di tutte le donne che avevano bisogno del suo aiuto. Poco prima la scena francescana per antonomasia. Irene si traveste da mendicante al contrario. Percorre il tunnel della stazione della metro spogliandosi di tutti i suoi averi fino a rimanere nuda.   La crisi d’identità di una donna passa attraverso una rappresentazione grossolana del bene e del male. Personaggi tagliati con l’accetta come la zia di Irene (interpretata bene, ma era facile, da una Lisa Gastoni sul grande schermo dopo 30 anni) nella parte della cattiva. Alla mensa dei poveri una signora che prova a nascondere la sua dignità estrae le posate d’argento, un’altra dice che il pacco non è per lei, ma per una sua amica. La ricerca di sequenze emblematiche come queste finisce per privare il film di soffio e respiro realistico. Come in una scena pietosa tratta direttamente dalla “Pietà” di Michelangelo. Qui Irene accoglie un barbone e accetta di fingersi la donna che l’ha abbandonato portandolo a vivere in strada ossessionato dal suo ricordo. Nella sceneggiatura c’era una scena in cui i due avrebbero dovuto fare l’amore. Avrebbe avuto un sapore più vero e complesso rispetto alla poesia spicciola della “Pietà”.   “Sono solo sgusciata nella stanza accanto” scrive Benny a Irene in una scena. Nei titoli di testa il film è dedicato a Gli Sgusciati. Chi sono, allora questi sgusciati? Quelli che sgusciano via dalla vita, come i poveri? O quelli, come Irene, che sgusciano se stessi mostrando il sangue vivo e pulsante del proprio cuore? Alla fine prevale il cuore profano del film, quello prevedibile e razionale delle emozioni stabilite a tavolino. Il cuore sacro resta da cercare altrove.