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Clint, the last Tycoon

Clint Eastwood è diventato a buon diritto uno dei registi più importanti della storia del cinema contemporaneo. A tre giorni dalla notte degli Oscar è uno dei grandi favoriti insieme a Martin Scorsese.

Clint Eastwood

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Se consideriamo il primo approccio col cinema di Clint Eastwood, avvenuto attraverso il genio visivo di Sergio Leone, analizzare l’evoluzione stilistica del suo modo di dirigere è ancora più sorprendente. Tanto più infatti opere come “Per un pugno di dollari” (id., 1964) o “Il buono, il brutto e il cattivo” (id., 1966) hanno messo in evidenza il grande espressionismo estetico di Leone, tanto i capolavori del regista Eastwood si segnalano invece per un tipo di lavoro sull’inquadratura e l’immagine che si muove verso l’invisibilità.

Sotto questo punto di vista si può davvero considerare Eastwood come l’ultimo regista in grado di portare avanti un discorso cinematografico che si rifà direttamente agli stilemi del periodo hollywoodiano classico, dove la messa in scena si muoveva come supporto elegante ma non invasivo rispetto alla storia raccontata.
Se già alcuni splendidi western come “Il texano dagli occhi di ghiaccio” (The Outlaw Josie Wales, 1976) o “Il cavaliere pallido” (Pale Rider, 1985) lasciavano intravedere uno stile coerente ed in continua evoluzione, il primo film in cui Eastwood ha dimostrato di essere autore in grado di lavorare anche fuori dal genere è stato senza dubbio lo struggente “Bird” (id., 1988), cine-biografia di Charlie Parker interpretata da uno straordinario Forest Whitaker.

La prima, piena esplicitazione della classicità di Eastwood è arrivata con “Gli spietati” (Unforvigen, 1992), capolavoro crepuscolare che può a buon diritto essere considerato uno dei più bei film degli anni ’90. Sempre nel corso di questo decennio vi sono state altre pellicole che, pur non raggiungendo gli standard dell’opera appena citata, hanno comunque contribuito a consolidare lo stile registico di Eastwood: tra queste possiamo citare l’epico “Un mondo perfetto” (A Perfect World, 1993) e soprattutto il nostalgico e sottovalutato “I ponti di Madison County” (The Bridges of Madison County, 1995).

Con l’arrivo del nuovo millennio di cinema la filmografia di questo grande cineasta si è impreziosita con due lungometraggi difficilmente dimenticabili: la massima espressione del suo classicismo venato di una forte impronta malinconica è tornata ad esprimersi con pienezza nella macro-storia di “Mystic River” (id., 2003) e nel melodramma da camera “Million Dollar Baby” (id., 2004). Con questi due film, tra loro speculari, Eastwood ha dimostrato di essere un narratore capace di raccontare con straordinaria forza emotiva lavorando soprattutto sulla sottrazione, sul non detto, per arrivare ad un carico di senso (e di sentimento) inusitati per il cinema di oggi.

Cineasta ormai libero dai condizionamenti del mercato, Clint Eastwood è diventato a buon diritto l’ultimo, prezioso esponente di un modo di intendere la “settima Arte” fatto prima di personaggi e storie, e successivamente di lavoro registico da realizzare con coerenza su di essi. Vi sono troppe pellicole che possono testimoniare l’ormai raggiunta maturità poetica di questo splendido “tycoon”: è dunque impossibile non considerarlo uno dei registi più importanti della storia del cinema contemporaneo.
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