The Karate Kid: La Leggenda Continua
Dre Parker è una ragazzino di Detroit di 12 anni cui tocca trasferirsi a Pechino, dove la madre deve recarsi per lavoro. Giunto nella sua nuova scuola Dre si innamora quasi subito della sua compagna di classe Mei Ying, ricambiato. La cosa però non va affatto giù al bullo locale, Cheng, che si impone su Dre, che conosce solo un po' di karate. Per fortuna del ragazzino l'addetto alla manutenzione, Mr. Han è in realtà in segreto un maestro di kung fu, che gli insegnerà non solo a difendersi, ma anche ad affrontare paure e bulli con calma e serenità.
di Marco Triolo
La recente ondata di remake di cui sembra essersi invaghita Hollywood
non ha portato generalmente film degni di nota, a parte forse per “L'alba dei morti viventi” di Zack Snyder. Il “Karate Kid” degli anni 2000 non ribalta certo questa tendenza, ma resta un discreto film per famiglie, pur non potendo competere con il classico di John G. Avildsen. Ma forse potrebbe essere solo una questione di età. Perché la pellicola di Harald Zwart (già autore de “La pantera rosa 2”)
è mirata a un pubblico di pre-adolescenti, che probabilmente adoreranno
il film e tra qualche anno, rivisitandolo, lo vedranno con gli stessi
occhi di chi, cresciuto negli anni Ottanta, rivede i film della propria
infanzia. Ovvero con quel misto di affetto e nostalgia attraverso il
quale filtriamo i nostri miti d'infanzia.
E, in fin dei conti, “The Karate Kid - La leggenda continua”
(a parte il titolo più stupido dell'anno: non c'è l'ombra di Karate nel
film) si sarà meritato tutto ciò: è un film ben diretto e con almeno un
personaggio simpatico e convincente. Non stiamo parlando di Dre Parker, il ragazzino americano trapiantato a Pechino interpretato da Jaden Smith, ma del Mr. Han di Jackie Chan, che non ha nulla da invidiare al signor Miyagi di Pat Morita.
Chan è il cuore del film, che funziona soprattutto grazie al bellissimo
rapporto padre-figlio che si instaura tra lui e il suo discepolo,
ancora più marcato che nella pellicola originale. Nonostante Miyagi e
Han condividano il dolore per la perdita dei propri cari, nel film di
Zwart viene infatti sottolineato come Dre diventi per Han l'erede a cui
insegnare tutta la sua arte, che altrimenti andrà perduta.
Molto interessante anche il ribaltamento di prospettiva rispetto al film
di Avildsen: qui sono i Parker a essere stranieri in terra straniera.
Un particolare che riflette l'attuale crisi americana e il crollo delle
sicurezze di un Paese che si credeva autosufficiente, e che ora vede i
più poveri fuggire per trovare lavoro e rifarsi una vita altrove.
Addirittura in un paese comunista.
Il combattimento finale, inevitabile, è molto ben diretto: Zwart
dimostra di saper servire le coreografie con più grazia rispetto a tanti
suoi colleghi “action” ben più blasonati. Da tutto questo esce un film
che soffre comunque per un protagonista poco convincente (che il talento
salti davvero una generazione?) e per dei dialoghi a volte
imbarazzanti. Ma il cuore è al posto giusto e forse, tra qualche
anno, quando il dibattito sui remake si sarà placato, verrà apprezzato
proprio per questo.