Quando la notte
Marina, una giovane donna con un figlio di tre anni, in un momento difficile della sua vita familiare, di fronte alla propria incapacit? di essere una brava madre, si trasferisce per un periodo di riposo in montagna. Il suo padrone di casa, Manfred, ? un montanaro rude e silenzioso che nasconde con la ruvidezza il trauma di un doppio abbandono: quello della madre e quello della moglie, che gli ha portato via anche i figli. Tra contraddizioni e tormenti dolorosi nascer? tra i due una storia d'amore che rester? in sospeso per quindici anni, quando finalmente Manfred e Marina si ritroveranno.
Poche storie: i lavori di Cristina Comencini sono sempre “dalla parte delle donne”. Lo era “La bestia nel cuore”
in cui le violenze di un padre pedofilo sconvolgevano anni dopo la vita
di una neomamma che pensava ormai di aver dimenticato, stessa cosa
dicasi per le otto donne di “Due partite” (da lei scritto e portato a teatro, ma non al cinema), e per le tre protagoniste de “Il più bel giorno della mia vita”. Persino quando prende il punto di vista di un uomo come in “Bianco e nero”,
lo fa dimostrando come il maschio abbia quasi una naturale tendenza a
tradire e le donne, di conseguenza, che siano le mogli o le amanti, a
rimanere sole.
Con “Quando la notte”, presentato in Concorso a Venezia 68 ed ennesima trasposizione su grande schermo di un suo romanzo, la tendenza non cambia:
l'uomo medio gliene fa passare di tutti i colori alla propria compagna.
Che sia un nonno che ancora non ha capito “la ragione” per cui la
moglie l'ha lasciato con tre figli tanti anni prima o che sia una severa
e scontrosa guida turistica in montagna che poco o nulla si immedesima
“nell'altra metà della coppia”. Oppure che sia un marito che manda la
moglie da sola in vacanza a fare passeggiate con il pargolo di due anni,
senza comprendere che, in certi periodi, non si lascia da solo qualcuno
che mostra segni di precarietà emotiva. La morale della favola è una
sola: gli uomini devono fare di più, non sparecchiare e svegliarsi nel
cuore della notte, ma capire ed essere pronti a supportare.
E' proprio questa volontà di costruire a tutti i costi una tesi che
porta la Comencini a scrivere personaggi stereotipati che ripetono
battute e assumono atteggiamenti che vanno in un'unica direzione
concettuale. Peccato. In un'epoca in cui la depressione
post-parto viene sempre più discussa, la scelta della Comencini di
parlarne in questi termini e con questa qualità - oltretutto
riducendo lo stress causato da un pianto continuo, all'unica apparente
ragione di un malessere che normalmente è ben più ampio e articolato - dispiace ancora di più. Alcuni momenti sono addirittura involontariamente ilari. Rimarranno purtroppo nella mente gli sguardi torvi di un Filippo Timi forse per la prima volta veramente a disagio in una sceneggiatura che
lo tratteggia come un cane senza padrone incattivito da tanti anni di
marciapiede, ma in fondo buono e desideroso solo di un po' di coccole.
Così come il grido di protesta della Pandolfi che si chiede come mai nessuno dica in giro quanto siano difficili i primi due anni di vita di un figlio per la madre.
E se come unico termine di paragone maschile in positivo viene
presentato un uomo pronto a ciucciare il seno della moglie per non
rischiare che si infetti, allora significa proprio che non si è
capaci, o non si ha voglia, di immaginare situazioni familiari e di
coppia più verosimili che suggeriscano una soluzione senza apparire casi
estremi. E così anche i pochi spunti interessanti di un film
oltremodo noioso e male interpretato, finiscono con il perdersi nella
marea.