Promises Written in Water
Una bellissima ragazza scopre di essere malata terminale e decide di non curarsi né farsi ricoverare in ospedale, ma di aspettare finché il dolore non sarà insostenibile e, a quel punto, togliersi la vita. La sua ossessione principale riguarda il suo aspetto fisico. Temendo gli effetti della malattia decide di farsi cremare e incarica un fotografo di verificare che le sue volontà vengano rispettate. Per apprendere l'arte della cremazione l'uomo si recherà in una camera mortuaria, accettando di ... [continua a leggere]lavorare lì per un periodo di tempo.
Vincent Gallo sarà pure in concorso con “Essential Killing”,
ma non si accontenta: ieri è stata la volta del secondo lungometraggio
presentato dall'attore/regista al Festival (che accoglie anche il suo
corto “The Agent”), “Promises Written in Water”. Un film scritto, diretto, montato, musicato e interpretato da Gallo, che sceglie un cast ridottissimo (oltre a lui Delfine Bafort e Sage Stallone in una parte minuscola) e uno stile fatto di fotografia in bianco e
nero, lunghi silenzi e dialoghi tra il criptico e il
meta-cinematografico: insomma dà la sua personale rilettura della
nouvelle vague.
Peccato che alla fine “Promises” risulti un polpettone presuntuoso e pretenzioso:
al di là di una confezione inconfondibilmente “d'autore”, si nasconde
un gelo intellettuale e un vuoto pneumatico di idee che mette seriamente
in dubbio l'onestà di Gallo. Il regista sembra più interessato a
colpire il pubblico indie, sta tutto il tempo su primi piani –
spesso dedicati a sé stesso, con effetto narcisistico che sfiora il
ridicolo involontario – e vuole scioccare proponendo addirittura il
particolare di una vagina a tutto schermo. Nel resto del film si
aggirano tocchi di necrofilia (l'inutile scena in cui il suo
personaggio, un impresario di pompe funebri, fotografa il cadavere nudo
di una ragazza), pulsioni sessuali represse e soprattutto una noia che
attanaglia lo spettatore in più di un'occasione, favorendo, anziché
l'apprezzamento per una così spiccata natura sperimentale dell'autore,
il bisogno di chiudere gli occhi per farsi un sonnellino.
Gallo sembra non capire che, se negli anni Sessanta uno stile come
quello da lui sfoggiato aveva il suo senso, perché andava a minare una
sicurezza borghese e una prassi polverosa e ormai consolidata nel cinema
francese e internazionale, nel 2010 un film così non ha molto da dire e
finisce per essere uno sterile esercizio di stile.
Dopo un'ora e un quarto, viene davvero da chiedersi cosa Gallo abbia
voluto dire con questo racconto tra lo squallido e il perverso. A sua
difesa, va almeno detto che riesce a convogliare una provincia americana
realmente disgustosa e triste. Ma a che pro?