Nine
Musical scritto da Arthur Kopit e Maury Yeston, "Nine" è ispirato alle vicende biografiche e artistiche di Federico Fellini, con riferimento alle donne che hanno contribuito alla storia della sua vita.
di Federica Aliano
Avete presente le atmosfere felliniane sempre in bilico tra la
realtà e l'inconscio scombinato dei protagonisti? Quelle inquadrature
rarefatte che parevano quadri surreali o foto di un reportage sul circo? Accantonatele. Fate come noi e accostatevi a "Nine" senza pensare a "8 e ½", altrimenti è ovvio che Rob Marshall
abbia già perso in partenza. Consideriamolo quello che è: un film
tratto da un musical di Broadway, con gli elementi che il cinema
musicale vuole: belle donne, caratteristi, canzoni, numeri di ballo e
costumi sfarzosi. Sulle prime e sugli ultimi, nessuno può dire che
manchino, dato che il cast femminile è sfavillante almeno quanto i
costumi del premio Oscar Coleen Atwood.
Marshall riporta sullo schermo tutti i difetti che aveva "Chicago",
dimenticando però di inserire anche i pregi di quel film che, pur con
grandi problemi, riusciva a catturare lo spettatore. Tagli di montaggio
ogni tre secondi, movimenti di macchina quasi inesistenti, cambi di
inquadratura con un ritmo da film d'azione imposti malamente alle
coreografie, primi piani che invece di avvicinarci emotivamente ai
personaggi ne appiattiscono i volti e le interpretazioni... oltre al mal di mare, allo spettatore sembra anche che il film duri il doppio.
Se il montatore ha dovuto lavorare così tanto, viene maliziosamente da
pensare che il girato non fosse così buono... eppure non possiamo
crederci, visto che a un occhio attento Daniel Day-Lewis, non proprio a suo agio con il canto, ha comunque dato un'ottima interpretazione. Il suo Guido Contini
è sempre curvo, la sua voce si arrochisce, i suoi movimenti sono
studiati alla perfezione; ma se il tempo di inquadratura non gli
permette di finire un solo gesto, ecco che tutto il lavoro dell'attore
va sprecato da un regista che non si è reso conto di avere oro puro tra
le mani.
Le canzoni sono tutto fuorché memorabili, soprattutto "Guarda la luna", cantata da Sophia Loren che si ritrova frasi in italiano che definire infantili sarebbe poco. Tra i numeri danzati solo quello della Saraghina ha una vera coreografia; del resto Fergie,
nonostante i chili di troppo e la discografia discutibile, è la sola
nel cast a cantare e ballare di professione. Qualcuno dovrebbe poi
spiegare a Marshall che sensuale e volgare non sono sinonimi: Penélope Cruz
è un'attrice talmente completa che, se lo desidera, sa essere anche di
cattivo gusto, ma a tutte manca un elemento fondamentale della
seduzione, l'autoironia. L'unica a possedere l'arte del sapersi giocare
di sé è Dame Judi Dench, che canta con un boa rosso infinito in mezzo alle ragazze delle Folies Bergère,
di ventagli piumate e di brillanti vestite, desiderando le gioie di un
intrattenimento puro che lasci a casa i pensieri, contrapposto alla
menzogna del Neorealismo.
Un cast sontuoso non è sufficiente per fare un buon film, bisogna
saperlo scrivere e dirigere... e il finale rassicurante è lontano anni
luce dal senso di una crisi che diventa espressione dell'arte.