L'arte di vincere
Billy Beane, general manager dell'Oakland A, decide di mettere in piedi un club di baseball scegliendo i suoi giocatori attraverso analisi computerizzate. L'esperimento avrà notevole successo.
Un “Jerry Maguire” in trincea. Potremmo definire così “L'arte di vincere”, dramma sportivo che Brad Pitt,
con il suo impegno produttivo e il suo mojo da superstar, mette a
lucido presentandolo come “una pellicola perfetta per chi di baseball
non capisce assolutamente nulla”.
Pitt regge il peso del mondo sulle sue spalle. Dai produttori che non
volevano sganciare un centesimo per una storia interessante come questa,
al pubblico internazionale capace di confondere gli Yankees con i
Lakers. E ci regala una mastodontica prova attoriale nei panni di Billy Beane,
general manager degli Oakland Athletics in grado di far risorgere come
la fenice il suo team abbandonato dai più grandi campioni. Un uomo
silenzioso, abituato a fare il pieno di delusioni nella vita: una
promettente carriera da battitore tramontata, un matrimonio chiuso e una
figlia che vede di rado.
Se Jerry Maguire era un procuratore sportivo che “odiava la sua
posizione nel mondo”, Beane odia il suo di mondo e vuole rivoltarlo da
cima a fondo. Lo fa a poco a poco, cominciando da una sedia sbattuta
contro il muro in un ultimo scatto d'ira. I toni del film sono sempre seri e il grande drama americano, in grado di travolgere emotivamente chi sta a guardare, si
cela dietro uno stile documentaristico e ha il coraggio di mostrare un
retrogusto amaro. Perché Bean la sua vittoria personale non
l'assaporerà mai pienamente. Lui è un vero romantico e come dice nel
film: “quando si ha a che fare con il baseball, è impossibile non
esserlo”.
“L'arte di vincere”
è incentrato sul coraggio di rimettersi in gioco, smantellando ogni
certezza per canalizzare tutte le forze verso un unico obiettivo:
cambiare le cose. Se Pitt ci regala una performance indimenticabile (ma la sensazione è quella che l'Academy ai suoi silenzi preferirà gli sforzi di DiCaprio per Eastwood),
il film non riesce sempre ad eguagliarlo. Interessante lo è certamente.
Speciale anche, dal momento che la sceneggiatura è stata scritta dal
grande Aaron Sorkin (premio Oscar per “The Social Network”).
Ma il decollo iniziale della storia si eclissa un po' nella seconda
parte in cui la macchina da presa rimane troppo in campo, mostrando una
serie di partite sul diamante e avvicinandosi troppo agli standard dei baseball movies che si volevano evitare in partenza.