Conan the Barbarian
Il film racconta le epiche imprese del barbaro Conan. Dopo la scomparsa di Atlantide e dodici millenni prima della nascita di Cristo, in piena era Hyboriana, l'esercito dei Vanir, alla ricerca del segreto per fabbricare l'acciaio attacca e distrugge il piccolo villaggio dei Cimmeri. Tutti sono uccisi ad eccezione di pochi bambini, tra i quali il piccolo Conan. Il ragazzo decide di vendicare il massacro della sua famiglia.
Sono passati ventisette anni dall'ultima volta che lo abbiamo visto sul
grande schermo: alto, enorme, con muscoli scolpiti nel marmo e
soprattutto con il volto di Arnold Schwarzenegger. Era difficile in partenza riavviare la saga di “Conan” nel ventunesimo secolo, ma alla Millennium Films non si sono arresi e hanno tentato di assemblare un prodotto tra il fantasy e il peplum trovando una star della TV (l'hawaiano Jason Momoa, già visto in “Baywatch”, “Stargate: Atlantis” e “Game of Thrones”) e scegliendo ancora una volta il plot della vendetta che il protagonista cova sin da quando è bambino.
Dietro la macchina da presa è stato chiamato il tedesco Marcus Nispel, uno che fa il suo dovere quando c'è da sporcarsi le mani nel fango e nel sangue, come ha dimostrato nel remake di “Non aprite quella porta”.
Tuttavia il regista si rivela un po' confuso nell'accontentare tutti
tra mostrare e non mostrare la violenza in scena, affidandosi anche a
effetti speciali che, a dire il vero, non sono poi così tanto speciali.
Il secondo errore di Nispel è quello di avere scelto un montatore
tutt'altro che convincente: “Conan the Barbarian”, infatti, è uno dei film peggio montati degli ultimi anni, basta vedere la sequenza dell'inseguimento in carrozza visivamente confusionaria, stanca e stancante.
L'azione si alterna con un tentativo di romance e con il tema
della vendetta che stimola tutte le forze del protagonista, deciso a
farla pagare cara a chi ha saccheggiato il suo villaggio. Per un po' si
tenta anche la parentesi fantasy, ma nessuno ci crede mai fino in fondo. Nessuno tranne un paio di attori: non stiamo parlando né della stralunata Rachel Nichols (che ruba il cuore dell'eroe), né di Rose McGowan che comunque si diverte ad essere spietata. Fanno meglio Stephen Lang, che comunque si ricicla nei panni del cattivo dopo “Avatar”, e Ron Perlman che nel ruolo del padre di Conan si presenta con un barbone che suscita
qualche risata, zittita poi dalla sua performance sempre impeccabile.
Dove il film pecca è proprio nelle fondamenta e a qualcuno (forse molti) non dispiacerà sapere che si tratta di una sceneggiatura scritta dallo stesso duo che ha “riportato in vita” Dylan Dog sul grande schermo (qui la recensione di Film.it): Donnelly e Oppenheimer realizzano una storia in cui ogni spunto narrativo è telefonato in
partenza, ogni singolo momento in cui cercano il dramma finisce per fare
cilecca, e nel finale si è già troppo annoiati per godersi la resa dei
conti tra il guerriero cimmero e la sua nemesi Khalar Zym. Più coraggio di osare e più sapore di sangue durante gli scontri avrebbero giovato alla tensione del film, ma la macchina da presa di Nispel non riesce mai ad inserirsi fino in
fondo in questo mondo di guerrieri, limitandosi a descriverlo
sterilmente.
Se la vendetta è un piatto che va servito freddo, la vendetta di Conan
sul grande schermo è troppo gelida per riscaldare o intrattenere davvero
chi sta a guardare.