

Chef

Jacky ha un sogno: diventare un grande chef. Nell'attesa lavora prima in un fast food e poi in un ospedale. Alexandre Lagarde è il migliore chef della Francia, ma rischia di far perdere una "stella" al ristorante che gestisce. Il loro incontro ci farà venire l'acquolina in bocca!

Tra i tanti meriti della Pixar c'è anche quello di aver rilanciato il cinema culinario, che dopo “Ratatouille”
non è più stato lo stesso. Ora non siamo contenti se nei film in
questione non c'è almeno un cuoco geniale a rimarcare lo status di
“arte” della cucina, elencando con precisione chirurgica gli ingredienti
o “insegnando” a un maldestro cliente come vada servito e assaporato un
determinato piatto.
Prendiamo “Chef”, film di Daniel Cohen interpretato da Jean Reno e Michaël Youn:
è la storia di un giovane e talentuoso cuoco, con moglie incinta, che è
costretto a fare i lavori più umili – come ad esempio cucinare in un
ospizio – pur di portare a casa la pagnotta. Un bel giorno, una delle
sue ricette attira l'attenzione di un rinomato chef (Reno), che lo
chiama a dirigere il suo staff nella speranza di salvare l'amato
ristorante dall'amministratore della sua compagnia, che glielo vorrebbe
strappare.
Ci troviamo di fronte a un incrocio tra il già citato “Ratatouille” e “Soul Kitchen”: come il Birol Ünel del film di Fatih Akin,
il personaggio di Youn non sopporta di dover sottomettere il suo buon
gusto alle esigenze più spicciole dei suoi datori di lavoro e di una
clientela che di alta cucina non ne capisce un'acca. E come in “Ratatouille”;
l'eroe ottiene la sua grande occasione, ma è costretto inizialmente a
lavorare nell'ombra della persona che tutti credono il vero responsabile
della riuscita dei piatti.
Com'è ovvio, la somma di due addendi di tale livello non porta necessariamente a un risultato migliore, e “Chef”
si aggira con sufficiente simpatia nel vasto mondo della mediocrità.
Una mediocrità piacevole, sia chiaro: ci sono tutti gli ingredienti –
perdonate il gioco di parole – per una commedia gradevole,
con inclusi riscatti personali, buoni sentimenti e il lieto fine
d'obbligo in cui “vissero tutti felici e contenti”. Ma c'è una
leggerezza di tocco che a noi italiani proprio non riesce e che eleva
automaticamente il film al di sopra della nostra produzione media. E poi
Reno è sempre Reno.
di Marco Triolo