Cesare deve morire
Docu-fiction dei fratelli Taviani girata nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma che vede come attori i suoi detenuti, dei quali alcuni segnati dalla "fine pena mai".
Qualche anno fa ci aveva pensato Al Pacino a esplorare il teatro elisabettiano e i suoi risvolti contemporanei in “Riccardo III”, uno dei film più interessanti ispirati agli scritti del Bardo. Adesso i fratelli Taviani alzano la posta in gioco e ci buttano dentro anche temi sociali ed “evasioni artistiche”. Assistere alla celebrazione dell'immenso potere di Shakespeare vale sempre una standing ovation.
Considerato che qui a trattare il bardo ci sono un gruppo di detenuti
di Rebibbia pronti a vivere ed evadere con il cuore dalle loro celle e
affidarsi all'arte, allora parliamo di applausi a scena aperta.
I registi filmano le persone e i luoghi veri, filtrando il tutto
attraverso un bianco e nero introspettivo e realizzando l'incontro
perfetto tra teatro shakespeariano e cinema sociale. Bastano una
manciata di scene per immergere lo spettatore nell'atmosfera, facendogli
dimenticare l'impronta docu-fiction del progetto. L'inizio è ipnotico: i
detenuti alle prese con i provini per ottenere i ruoli
nell'adattamento. D'un tratto le mura delle celle, i lunghi corridoi e
le zone d'aria del carcere diventano un tutt'uno con le sale del potere
dell'Antica Roma. La forza visiva trasuda dallo schermo per settantasei minuti di grande cinema.
I veri colpi di genio di “Cesare deve morire”
sono rappresentati dalle sequenze in cui i detenuti si lasciano
prendere dai pentametri giambici per scatenarli improvvisamente in forti
emozioni fuori dal dramma. Momenti in cui la transizione da recitazione
a realismo viene eseguita con la massima naturalezza. Il testo
shakespeariano prende vita anche lontano dai riflettori e, a quel punto,
le emozioni vengono duplicate. Non manca comunque qualche scivolata: si
poteva forse tagliare il finale ridondante e la battuta “da quanto
conosco l'arte, questa cella è diventata una prigione”, pronunciata da
uno dei protagonisti.
Eppure il bardo arriva più in forma che mai a riprendersi il primato
nell'era in cui stanche parodie delle sue storie vengono messe in scena
in chiave emo. Il suo linguaggio torna a dominare e primeggiare e il
merito è tanto dei Taviani quanto del regista Fabio Cavalli che dirige i detenuti in scena davanti alla macchina da presa dei fratelli campioni a Berlino con l'Orso d'Oro.
di Pierpaolo Festa