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Jennifer 20 anni dopo

Jennifer Connelly a Roma per presentare "Dark Water", riparte da quando ha interpretato, nel 1985, il suo primo horror, "Phenomena" di Dario Argento

Jennifer Connelly

12.04.2007 - Autore: Adriano Ercolani
Cosa pensa del filone di cinema horror giapponese di cui Hollywood sta proponendo così tanti aggiornamenti?

J.C. – Io trovo molto interessante questo tipo di “aggiornamento”. Non dimentichiamoci che Hollywood ha una grande tradizione di capolavori dell’horror, lungometraggi di grande impatto, girati da maestri del cinema: penso a “Shining” (id., 1980), a “Rosemary’s Baby” (id., 1968) tanto per citarne alcuni. La caratteristica molto interessante di questa nuova ondata di opere asiatiche è che l’orrore non proviene da un minaccia esterna, ovvero il classico mostro: la minaccia nella maggior parte dei casi si trova al nostro interno, è dentro di noi. Si tratta di una differenza molto sottile e sofisticata… 

Com’è stata la sua esperienza con il regista Walter Salles? Lui ha spesso dichiarato di non trovarsi a proprio agio nei meccanismi hollywoodiani…

J.C. – Dei suoi problemi con Hollywood proprio non saprei dirle. Per quanto m riguarda è stata una collaborazione davvero redditizia per me: dovendo stare in scena molto spesso da sola nel film, abbiamo lavorato molto sul mio personaggio isolandoci dagli altri. Walter è stato estremamente eloquente e disponibile con me, il mio rapporto con lui è stato meraviglioso. La regia di “Dark Water” poi funziona davvero, è elegante ed allo steso tempo molto precisa, stringata.

Sono Passati 20 anni da quando ha interpretato il suo primo horror, “Phenomena” (id., 1985) di Dario Argento. Che differenze ci sono con questo film?

J.C. – Il film che ho girato con Dario Argento era un horror  nel vero senso del genere: era visivamente più forte, spaventoso, con delle scene che andavano al limite del “gore”. Argento aveva uno stile decisamente più viscerale. “Dark Water” è invece un’opera che fa leva sulla tensione psicologica, è più attento allo sviluppo sia narrativo che interno dei personaggi. In qualche modo credo che questo film tenti di trascendere il genere di cui fa parte.

L’essere madre di due bambini ti ha aiutato con il personaggio di Dalia?

J.C. – Mah…probabilmente si, ma non so dirglielo con certezza. A voler essere sincera, non lo so. Si tratta comunque di personaggi inventati, e per farli miei io uso più l’immaginazione e l’osservazione degli altri che la mia vita privata. Io faccio ricerche, mi documento, tendo ad avere un approccio  più tecnico con il ruolo…

Ha avuto difficoltà sul set?

J.C. – Non particolarmente, devo dire che ci siamo molto divertiti. L’atmosfera sul set era grottescamente comica. Certo, dover sempre beccarmi tutta quell’acqua…soprattutto negli ultimi giorni, quando abbiamo iniziato ad “inondare” le scene, beh, allora tutto è diventato un po’ più freddo e scomodo, ma comunque l’atmosfera è rimasta molto divertente. L’unica vera difficoltà è stata che io ero praticamente sempre sul set, poiché comparivo in pratica in tutte le scene. Ho avuto solo due giorni di vacanza! Dover preparare la scena, recitare, e negli intermezzi allattare il mio bimbo appena nato, questo è stato un bello sforzo. Ma ne è valsa la pena!

Lei ha sempre parlato di scelte che ha fatto in passato ed ora non rifarebbe. Come si trova oggi?

J.C. – A livello professionale radicalmente meglio. Adesso ho molte più opportunità: mi arrivano più copioni, e soprattutto molto più creativi. In un anno riesco a legger almeno due o tre sceneggiature che mi colpiscono a fondo, e che vorrei assolutamente interpretare. La svolta però e avvenuta dentro di me, quando a circa venticinque anni ho cambiato il rapporto con il mi lavoro: ho capito che dovevo combattere per i film che volevo davvero interpretare, altrimenti non sarei andata da nessuna parte. Per fortuna ha funzionato…

I suoi progetti futuri?

J.C. – Appena riuscirò a tornare in America, i primi di luglio, inizierò le prove del nuovo film di Todd Field, il regista di “In the Bedroom” (id., 2001). Il titolo di questa sua nuova pellicola è “Little Children”, ed è tratto dal romanzo di Tom Perrotta. Si tratta di una satira su un gruppo di persone che non ne vuole sapere di dover crescere…

Lei è entrata nella storia del cinema italiano interpretando la scena della danza in “C’era una volta in America” (id., 1984)…

J.C.  – A dire il vero non avevo mai considerato la questione in questo modo: ero molto giovane, ed emozionantissima per il fatto di dover lavorare con un maestro come Sergio Leone, che è stato fantastico. Io mi sono sempre vista come una sorta di piccolo topolino danzante…

Come si giudica quando si rivede nei suoi film?

J.C. – Non mi rivedo quasi mai, non mi mette a mio agio. Guardo i miei film appena escono al cinema, per poterne poi parlare con voi giornalisti, ma soprattutto per imparare continuamente a migliorarmi, poi non li riguardo più. L’unico che ho rivisto di recente è stato proprio “C’era una volta in America”: sono passati più di venti anni, una distanza di tempo più che giusta per poter obiettivamente dedicarmi alla bellezza di quel capolavoro.